Pochi giorni fa Sergio Mattarella, in occasione della nuova uscita di due storiche testate, ha ribadito con nettezza alcuni principi in materia di informazione. Ha sottolineato che la libertà di stampa, non condizionata, è «elemento portante e fondamentale della democrazia». Ha anche ricordato come la stampa debba essere credibile e non influenzata da poteri pubblici e privati, e che le società editrici devono essere libere e sufficientemente forti da sostenere «lo sforzo dell’innovazione e dell’allargamento della fruizione dei contenuti giornalistici attraverso i nuovi mezzi».
La consapevolezza di dover favorire una informazione autorevole – ha concluso il Capo dello Stato – «deve saper guidare l’azione delle istituzioni».
Queste parole sono preziose oggi come ieri. Partiamo da due considerazioni: gli editori puri, senza interessi in altri campi e perciò meno esposti ai condizionamenti sono sempre stati rari. I politici hanno sempre tentato di manipolare la stampa. L’ultimo esempio: il capo del partito di maggioranza relativa, lamentando di subire i pregiudizi dei giornali, preannuncia tagli ai finanziamenti (indiretti) all’editoria.
In questo clima, non favorevole alla libertà di informazione, giunge una notizia che mette di buon umore, se non altro perché il legislatore sembra per una volta andare nella direzione giusta.
Parliamo dell’approvazione da parte del Parlamento europeo della cosiddetta “direttiva copyright”, che mira ad aggiornare le regole del diritto d’autore alla evoluzione tecnologica. I problemi erano vari e le esigenze, tra le quali trovare il migliore equilibrio, diverse. Quelle che forse più caratterizzano questo intervento normativo sono due, nate dalla straordinaria facilità di diffusione dei contenuti in rete. Si tratta di individuare meccanismi che consentano di garantire, da un lato, regole per una equa retribuzione per la divulgazione di contenuti autoriali, soprattutto da parte delle piattaforme che dominano la rete, dall’altro, una efficace repressione delle violazioni di tali regole.
Su questi ultimi due punti le discussioni più accese si sono avute intorno agli articoli 11 e 13 della direttiva. Il primo introduce una «protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale» a favore degli editori dei giornali. In sostanza viene riconosciuto all’imprenditore la possibilità di ottenere una remunerazione per la pubblicazione in rete da parte di altri delle notizie. C’è chi ritiene il sistema difficilmente realizzabile, fonte di eccessiva burocratizzazione e che rischia di escludere la stampa dal flusso dell’informazione più che retribuirla. A costoro si può rispondere che la regola non è altro che la declinazione del principio sacrosanto secondo cui il lavoro si paga. Il problema, semmai, può essere quello di trovare sistemi efficaci per adeguare il principio al nuovo contesto; ma la soluzione non può essere quella di negare il principio che crea il problema, una volta in contatto con il nuovo contesto.
L’art. 13 introduce una sorta di meccanismo di collaborazione tra titolari di diritti e grandi piattaforme, nonché obblighi per i provider, affinché si attivino ad impedire la commissione di illeciti. Qui siamo a uno dei grandi punti interrogativi della rete: a chi attribuire la responsabilità dei contenuti diffusi? Attribuirla a chi gestisce la piattaforma – la strada meno accidentata, tentazione a cui sta cedendo l’ordinamento – comporta un duplice rischio: conferire a un privato un forte potere sui contenuti ed escludere la voce di un terzo soggetto oltre alla piattaforma, al titolare del diritto, cioè chi ha caricato in rete l’opera.
Proviamo a spiegare perché questo passo è una buona notizia. Il miglior modo per arginare le derive del potere è tenerlo sotto controllo. Chi opera meglio questo controllo: organi di stampa, anche online, radio e televisioni che appartengano a imprese editoriali con dimensioni tali da resistere al potere politico, oppure, magari indirettamente, gli Internet Service Provider, che danno voce al popolo della rete, vedette in perenne vigilanza?
A noi sembra che una organizzazione che gestisce e filtra le notizie in modo professionale sia più funzionale allo scopo. Per questa ragione, più la stampa si indebolisce, meno ci pare roseo il futuro democratico del Paese. L’impresa editoriale, invece, deve essere forte, anche economicamente, per restare indipendente. Ecco perché sono necessarie regole che favoriscano un finanziamento da parte del mercato o anche dello Stato, ma ispirato a criteri oggettivi e non manipolabili da maggioranze transeunti, e che favoriscano il prosperare di editori puri, meno condizionabili dal potere.
Il tentativo di applicare regole antiche al mondo della rete dovrebbe consentire a dare un po’ di fiato a chi altrimenti resterebbe strangolato, cioè la stampa, che garantisce salubrità all’aria democratica. Il solo controllo diffuso degli utenti della rete otterrebbe lo stesso risultato? La direttiva non castra questo altro meccanismo, che sarà sempre più rilevante. Ma in tempi di “grande smarrimento” come questi, ci sembra un poco rischioso lasciare l’esclusiva al “popolo di Facebook”.
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