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La lezione dei mercati che Dolce&Gabbana hanno dimenticato

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autogol

La lezione dei mercati che Dolce&Gabbana hanno dimenticato

Chi di social ferisce di social perisce, verrebbe da dire. Dolce&Gabbana stanno passando un brutto quarto d’ora in Cina a causa di una pubblicità ritenuta offensiva e razzista. È piena di stereotipi e di luoghi comuni, commentano i cinesi indignati sui social.

Ma la cosa dev’essere andata ben oltre i social, visto che il mega show di Shanghai approntato in una location da 18mila metri quadrati, con 360 modelli e 120 artisti non si farà, è stato annullato. Non solo, ma data l’ondata di indignazione che ha invaso il mercato cinese, con tanto di celebrities che giurano che non indosseranno mai più capi Dolce&Gabbana e persone per strada che bruciano i loro prodotti, buona parte delle principali piattaforme di e-commerce cinesi hanno deciso di eliminare il marchio italiano dai loro cataloghi, con immaginabili ricadute milionarie sul fatturato dell’azienda. C’è una sottile ironia in tutto questo. Una corda che tirata troppo a lungo sembra essersi spezzata.

Dolce&Gabbana per anni hanno costruito la loro immagine su pubblicità forti, ammiccanti e “artisticamente” ambigue. Nonostante l’effetto scandalo possa aver avuto un impatto positivo sulla popolarità del marchio in Europa e negli Stati Uniti, i creativi del gruppo avrebbero dovuto essere coscienti della dipendenza e della peculiarità culturale di tali reazioni. L’Europa non è la Cina e gli Stati Uniti non sono gli Stati Arabi. Ci sono sensibilità differenti e soglie invalicabili che variano da cultura a cultura. Il mercato globale non può, per fortuna, ancora prescindere da questa pluralità di visioni e prospettive. Dolce&Gabbana sembrano averlo dimenticato.

Poi questa storia evidenzia la vera novità. Mentre fino a pochi anni fa, se un grande marchio o una grande multinazionale urtava la sensibilità dei consumatori con messaggi offensivi o con pratiche irresponsabili da un punto di vista sociale o ambientale, la reazione non poteva che essere debole e scarsamente incisiva, a causa della difficoltà di impattare in maniera coordinata con azioni di protesta e boicottaggio.

Oggi le cose sono cambiate radicalmente. Oggi se i consumatori si indignano ci sono i social a catalizzare la protesta, e questa può diventare virale e inarrestabile nel giro di pochi click. E poi ci sono i gatekeepers, le piattaforme online, Amazon, Aliexpress, Yoox e molte altre, che scegliendo di inserirti o meno nel loro catalogo ti danno o ti tolgono visibilità a livello globale.

I due fattori, la protesta social e l’accesso ai prodotti attraverso i colli di bottiglia virtuali delle piattaforme digitali, si rafforzano producendo fenomeni nuovi. Mentre fino a pochi anni fa, per poter organizzare un boicottaggio contro la Nike, la Nestlé o McDonald’s, per le loro pratiche discutibili, era necessario un enorme sforzo organizzativo e grandi costi per la comunicazione, oggi questi sono minimizzati dalla presenza dei social che rendono immediatamente visibile alle masse l’estensione dell’indignazione, e delle piattaforme di e-commerce, capaci di influenzare e coordinare, contemporaneamente, le scelte di milioni di consumatori.

La logica è cambiata: mentre fino a pochi anni fa le imprese potevano esercitare un enorme potere di influenza sulle scelte dei consumatori attraverso azioni di persuasione e un gigantesco potere di mercato, oggi, sempre di più, i consumatori possono organizzare e coordinare le loro scelte in modo da esercitare in maniera efficace la loro sovranità, il loro “voto col portafoglio”.

Dispiace che in questo caso ad andarci di mezzo sia stato un marchio italiano, ma forse se ne può ricavare una lezione utile anche per Dolce&Gabbana: i consumatori non sono più, come una volta, polli da spennare e perfino da irridere, ma coloro che oggi, come mai, possono e devono determinare, con le loro scelte, il nostro successo o il nostro declino.

Department of Economics and Business - University of Cagliari; Berg - Behavioural Economics Research Group

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