Dalla ripresa economica ai rimborsi ai risparmiatori traditi, dal reddito di cittadinanza a quota 100 la distanza tra la complessità
inevitabile che avvolge ogni argomento e la semplificazione narrativa che ha creato la bolla comunicativa in cui continuiamo
a essere immersi sta aumentando. E rischia di lasciare un campo lastricato (come minimo) di disillusioni.
La ripresa economica, il simil-boom anni 60 da attuare nella seconda metà dell'anno per risollevare le sorti di un Pil in recessione, era affidata alla rapida riforma del codice degli appalti. Che non ci sarà, perché il tema interagisce con regole europee e lo stesso Governo sembra intenzionato a ricorrere a un disegno di legge delega per rivedere le norme. Tempo previsto: almeno altri due anni. Certo non in tempo per rilanciare il Pil del secondo semestre.
Per i rimborsi ai 300mila risparmiatori coinvolti nei crack bancari, tra cui quelli delle banche venete ai quali sabato scorso
i vicepremier hanno promesso ristori vicini al 100% entro una settimana, la storia si ripete. Il tema è legato alle regole europee ed è troppo rischioso pensare di aggirarle perché si rischia di dover restituire le somme
percepite a titolo di risarcimento: una doppia beffa. È un ginepraio ben più fitto di ogni bordata da comizio il tema della definizione dei criteri in base
ai quali stabilire in modo oggettivo se vi sia stata o meno la truffa ai danni dei risparmiatori. Per districarsi i rappresentanti
del governo hanno addirittura chiesto aiuto ai tecnici di Consob e Banca d'Italia, istituzioni che però restano oggetto delle
bordate della propaganda dell'Esecutivo che le vuole colpevoli di quanto accaduto. Critiche social e dialogo reale. È la doppia
via dell'azione del nuovo luddismo politico.
Non è molto diverso il discorso a proposito del reddito di cittadinanza con cui, va ricordato, il Governo «ha già sconfitto
la povertà». Il tempo passa e i navigator che dovranno essere i nuovi angeli custodi per chi cerca lavoro incapperanno, se
riusciranno ad essere assunti in meno di un mese con colloqui e titoli, in migliaia di ricorsi dei loro colleghi già occupati
nei Centri per l'impiego a stipendio ridotto e a parità di mansioni. Molte regioni restano contrarie del tutto e li boicottano. Senza contare che il governo ha stanziato le somme per i loro stipendi, ma non quelle per il loro luogo di lavoro. Molti
centri dovranno duplicare le sedi o trovarne di nuove più grandi, ma questo non è stato previsto e non si sa ancora chi pagherà.
Senza entrare nelle polemica sull'efficacia o meno del nuovo assegno e sul rischio che possa favorire il lavoro nero o il
non lavoro, conta un fatto: almeno 100mila lavoratori altrettanti esuberi di crisi aziendali oggi percettori dell'assegno
di ricollocazione lo perderanno. E per loro l'ingresso nella zona della povertà è assicurato. La legge non lo aveva previsto.
Così come non aveva previsto, in tema di quota 100, che l'uscita dei lavoratori avrebbe creato un'esigenza di liquidità per
remunerare i Tfr dei pensionandi che non tutte le Pmi sono in grado di affrontare. Con il rischio di affondarne i bilanci
perché dovranno rivolgersi al sistema bancario con costi non previsti. E non sono poche. Quanto al resto, quota 100 non sarà
quella leva formidabile per spingere il turnover nelle imprese e creare finalmente quella staffetta generazionale che il paese
aspetta da tempo. Il 40% delle candidature al Sud riguarda persone fuori dal mercato del lavoro, disoccupati o casalinghe che non hanno nulla a che fare con i turnover in azienda. Senza contare che molte aziende preferiscono
investire in macchinari e automazione piuttosto che moltiplicare l'organico.
Non tutto può restare slogan. Prima lo si accetta e meglio è. Anche perché lo scarto tra il dire e il fare mina la fiducia. Che non si misura, ma si sente. E conta.
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