La politica industriale o è politica economica o non è, diceva Beniamino Andreatta. Nel caso italiano, se si continua così,
fra poco non ci sarà nemmeno più l'industria.
Esiste un disallineamento fra la visione delle cose del Governo in carica e lo stato delle cose del Paese, fra gli orientamenti ideali proposti e le misure concrete attuate da chi è a Palazzo Chigi e al Mef, al Mise e al Ministero
del lavoro e le condizioni reali della manifattura italiana, che rappresenta – ancora, nonostante tutto - la intelaiatura
economica e sociale del nostro Paese.
Gli ultimi dati comunicati dall'Istat hanno un triste pregio: sgombrano il campo da ogni possibile diversa interpretazione. L'interpretazione è univoca. I dati sull'industria non sono
brutti. Sono molto brutti. Sono molto brutti per due ragioni. La prima ragione è che riguardano tutti i settori. La seconda
ragione è che l'export non è più l'ancora di salvezza.
Tutti i comparti in rosso
L'eccezione italiana, basata su una multispecializzazione che ha sempre consentito di compensare la diminuzione di un settore
con la crescita di un altro, è in questo caso tristemente normalizzata. A dicembre, il calo tendenziale per l'alimentare è
stato pari al 4,6%, per la chimica dell'8,5%, per la farmaceutica del 13%, per i macchinari del 4,5% e per l'automobile del
23,6 per cento. L'eccezione italiana, che da almeno venticinque anni è basata su un generale mercato interno asfittico e su
una particolare capacità delle imprese di muoversi sui mercati globali ottenendo buoni risultati con l'export, è ora – nei
dati dell'Istat – tristemente normalizzata: a dicembre il calo tendenziale del fatturato interno è stato del 7,5% e – soprattutto
– quello del fatturato estero del 7 per cento.
I fattori internazionali
Tutto questo avviene per ragioni internazionali. La fine della globalizzazione produce danni profondi alla nostra manifattura.
Donald Trump che definisce l'industria europea dell'auto un pericolo per la sicurezza nazionale è soltanto l'esempio più lampante.
La Cina è piena di debiti. L'Unione europea cresce meno del resto del mondo. Incombe un cambio della guardia alla Banca Centrale
Europea che porrà fine alla tutela delle economie più deboli, Italia in testa. Tutto questo avviene anche per ragioni interne.
Che non sono imputabili soltanto all'attuale governo. La deriva italiana è di lungo periodo. Ma, dell'attuale governo, va
sottolineata la concentrazione della politica economica sul trasferimento delle risorse dalle imprese alle persone: per dirla
con il linguaggio del panettiere, un tassa e spendi finalizzato a finanziare le pensioni non pagate dai contributi e a garantire
il reddito di cittadinanza.
Le scelte politiche interne
Ma, soprattutto, colpisce la sostanziale incomprensione per i fenomeni industriali: il settore dell'auto, le attività estrattive,
il tema dei cantieri e delle reti viarie, il problema dell'energia sono soltanto alcuni dei capitoli trascurati.
Non è sufficiente mettere la flat tax ai piccoli produttori, tutelando gli interessi di un preciso segmento elettorale che
da sempre dà la sua preferenza alla Lega. Non è sufficiente auspicare che il reddito di cittadinanza, mito fondativo dei Cinque
Stelle, dia un impulso ai consumi. Non è sufficiente occuparsi con grande perizia – e grande impregno competitivo, fra i due
partiti di governo – di consigli di amministrazione e di posizione di vertice in tutte le partecipate dello Stato. Non basta
risolvere ogni questione con il ritorno dello Stato padrone, come dimostra quello strano ircocervo che sarà la Alitalia controllata
dalle Ferrovie dello Stato. L'industria è un organismo complesso e articolato. E resta – in un Paese a bassa produttività del settore dei servizi e ad enorme dipendenza dal settore pubblico – l'unica componente in grado di creare valore aggiunto
non dal denaro del contribuente ma dallo spirito di impresa, dal rischio commerciale e dall'innovazione tecno-manifatturiera.
Serve più attenzione. Questo – per usare un linguaggio neosovranista - è il primo degli interessi nazionali.
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