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GLI ATTENTATI di pASqua

Sri Lanka, crocevia d’interessi strategici. Il perché della strage

Per tentare di comprendere la portata e le possibili ripercussioni degli attacchi coordinati contro le chiese e gli hotel dello Sri Lanka che domenica hanno brutalmente trasfigurato le celebrazioni pasquali non si può prescindere dal mero dato statistico: oltre 300 vittime civili di 9 nazionalità e 500 feriti in un solo giorno sarebbero un’enormità in qualunque Paese della terra (compresi quelli in guerra), figuriamoci nella top destination del 2019 secondo le guide turistiche della Lonely Planet.

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Eppure fermarsi alle cifre non basta. Perché quanto è accaduto domenica mattina nei luoghi di preghiera e di vacanza di uno dei Paesi più incantevoli dell’Asia ha molteplici ramificazioni economiche, geopolitiche, religiose e di sicurezza.

Scegliendo di colpire anche tre hotel di lusso della capitale Colombo, gli attentatori hanno preso di mira quell’industria turistica alla quale tocca il difficile compito di trasformare l’immagine dello Sri Lanka nel mondo, dopo che tra il 1983 e il 2009 il Paese era finito sulle pagine dei giornali quasi sempre per i motivi sbagliati. Colpendo a pochi mesi da una clamorosa crisi costituzionale (lo scorso ottobre a Colombo hanno convissuto due premier, uno dei quali frettolosamente riconosciuto da Pechino), hanno minato la stabilità politica di uno dei Paesi cardine della Belt and Road Initiative cinese e degli equilibri strategici dell’area indo-pacifica. Attaccando la comunità cristiana, la più avulsa dai decenni di guerra civile che hanno insanguinato il Paese, hanno aperto una nuova fessura nel precario edificio dell’equilibrio etnico-religioso instaurato dopo la fine del conflitto nel 2009. Senza contare le implicazioni - qualora i sospetti di queste ore trovassero conferma e in attesa di una rivendicazione - di una nuova fiammata (e un nuovo fronte) del terrorismo islamico.

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Economia
A dieci anni dal sanguinoso epilogo della guerra civile tra lo Stato centrale e i separatisti Tamil del Nord-Est del Paese, lo Sri Lanka - pur tra gli alti e bassi di una vita politica a tratti convulsa - sembrava avviato verso la rinascita. Nel 2009, dopo 26 anni di guerra, il Pil di questo Paese asiatico di poco più di 20 milioni di abitanti viaggiava intorno ai 42 miliardi di dollari, mentre il dato del 2018 supera gli 88 miliardi. Un rimbalzo che nel settore turistico - cruciale sia perché vale il 4,9% del Pil, sia perché, dopo rimesse e tessile, è la terza fonte di valuta estera - è stato ancora più clamoroso: i 450mila arrivi del 2009 sono diventati 2,3 milioni nel 2018. L’obiettivo della Sri Lanka Tourism Development Authority di arrivare a 4 milioni di turisti nel 2020 sembra però irraggiungibile: alcune strutture hanno già visto cancellare il 20% delle prenotazioni e se l’esperienza della Tunisia del 2015 insegna qualcosa (una sessantina di vittime in due attacchi e tre anni di tempo per tornare agli arrivi pre-attentati) ci vorrà del tempo.

Geopolitica
Lo Sri Lanka occupa una posizione strategica al centro delle direttrici marittime che collegano l’Asia con l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. Ed è un caso di scuola di come l’influenza cinese sta ridisegnando gli equilibri strategici e commerciali della regione mediante le debt trap: dopo aver prestato ingenti somme per la costruzione del porto di Hambantota, sulla costa sud del Paese, Pechino ne ha assunto il controllo per 99 anni in cambio della cancellazione di una parte dei debiti di Colombo e oggi dispone di un avamposto cruciale non lontano dalle coste del proprio principale rivale regionale, l’India. È presto per dire come gli attori in gioco, domestici e non, affronteranno questa crisi. Certo è che la velocità con cui un pezzo degli apparati di sicurezza locali hanno cercato di mettere in difficoltà il proprio governo dicendo di avere segnalato da giorni il rischio di un attacco è stata a dir poco sorprendente.

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Le tensioni etnico-religiose

Se la pista del radicalismo islamico indicata dalle autorità si rivelasse corretta, per lo Sri Lanka potrebbe aprirsi un nuovo capitolo in una storia lunga e tormentata di tensioni interetniche. La piccola minoranza musulmana ha vestito per anni i panni della vittima: in parte per il suprematismo della maggioranza buddista e in parte per la parziale sovrapposizione territoriale con la più numerosa e militarizzata comunità Tamil. Una subalternità proseguita anche nell’ultimo decennio, tanto che lo scorso anno, dopo aver a lungo ignorato il problema, il governo è stato costretto a dichiarare lo stato di emergenza per frenare una serie di violenze antimusulmane che ora potrebbero trovare nuova linfa.

La pista internazionale
Secondo Nicola Missaglia, un analista dell’Ispi, la tesi ventilata ieri dal governo secondo cui dietro National Thowheed Jamath, la piccola organizzazione estremista locale sospettata dell’attacco, ci sarebbe un network terroristico internazionale potrebbe avere un fondamento. «Sia perché le voci di un possibile attentato sembrano essere giunte da un servizio di intelligence straniero; sia perché si è trattato di un attacco coordinato, su larga scala e logisticamente abbastanza complesso; sia perché, dopo la fine dei combattimenti in Siria, alcuni foreign fighters stanno tornando nei propri Paesi d’origine». Un influsso di “manodopera” di cui l’Asia del Sud, da anni una delle frontiere più calde dell’Islam militante, davvero non sembra avere bisogno.

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