Tra i suoi tanti primati – rigorosamente negativi – la tassazione immobiliare in Italia vanta anche la singolare peculiarità
di scontentare “quasi” tutti. In effetti, se si esclude il caso, o forse dovremmo dire l’anomalia dell’abitazione principale,
di motivi per stare allegri se ne vedono davvero pochi.
Gli immobili sono stati e sono il bancomat del fisco: garantiscono 40 miliardi di euro all’anno tra imposte sui redditi, patrimoniali e tasse sulle compravendite. Anzi, addirittura
50 miliardi se a questo importo si aggiungono gli ulteriori 10 miliardi provenienti dalla Tari (erede delle vecchie Tarsu/Tares/Tia
sui rifiuti solidi urbani), ovvero un tributo che mantiene comunque una forte connotazione “immobiliare”.
Con questi numeri, è proprio difficile dare torto a quanti sostengono che il prelievo immobiliare sia ben più che eccessivo.
Ed è anche assai difficile ignorare gli effetti pesantemente negativi che una crescita senza precedenti delle imposte locali/patrimoniali - più che raddoppiate dopo la “cura Monti” del 2011 - ha avuto sulle variabili economiche del mercato immobiliare, con un
devastante impatto recessivo.
A ben vedere, però, a provocare un cortocircuito c’è il fatto che appare altrettanto difficile dissentire da quanti ritengono
che il tema della tassazione immobiliare debba confrontarsi con altri due nodi: da un lato, l’accennata anomalia della doppia esenzione Irpef e Imu/Tasi sulla prima casa (escluse le abitazioni di lusso); dall’altro, l’iniquità intrinseca di un sistema di prelievo che si fonda su un superato sistema di valori catastali.
Entrambi questi argomenti, come è facile intuire, si intrecciano con circostanze che hanno fatto della tassazione immobiliare un elemento cruciale della propaganda e dei programmi elettorali di tutte le forze politiche. Sappiamo bene perché si è scelto di escludere la prima casa da ogni forma di tassazione (solo l’Imu vale circa 4 miliardi di euro): più incomprensibile è capire perché non si sia mai voluta considerare l’ipotesi di affinare una via intermedia (peraltro, già applicata in passato) riconoscendo l’esenzione solo fino a un certo livello di reddito, come in fondo ci chiedono di fare autorevoli organismi internazionali (Commissione Ue e Fmi).
Sappiamo anche bene che la riforma del Catasto è stata via via rinviata perché il nuovo assetto porta con sé l’inevitabile rischio di un aumento “selettivo” del prelievo, cosa che politicamente nessun partito poteva né può sostenere. Superfluo rilevare il paradosso di questo modo di agire: per evitare di “turbare gli equilibri” si preferisce mantenere le vecchie e comprovate ingiustizie di un sistema che produce forti regali destinati a molti fortunati proprietari e altrettante penalizzazioni per molti altri malcapitati. Cornuti e mazziati, si diceva una volta.
La domanda, a questo punto, diventa “come se ne esce?”. Il governo, in autunno, aveva ipotizzato un intervento su Imu e Tasi. Il Parlamento ha avviato proprio in queste settimane un’indagine conoscitiva per la riforma della fiscalità immobiliare. Allora, se ne esce cercando di rendere il prelievo sugli immobili se non più leggero – e sappiamo quanto ciò sarebbe necessario – almeno più equo e più semplice. Se ne esce mettendo davvero ordine in un caos senza fine di imposte uguali ma diverse (Imu e Tasi).
Provando a guardare con attenzione a quel che fanno all’estero, dove non sempre – anzi quasi mai – imposte e tasse sono più leggere che da noi ma dove, diversamente da qui, quel che si paga consente almeno di ricevere in cambio servizi efficienti e di buona qualità.
Ma, certamente, se ne esce con una visione più ampia. Con un approccio di sistema, dalle compravendite agli investimenti. Con una visione capace di trasformare la fiscalità del settore se non proprio in un volàno almeno non nel solito ostacolo, provando a fare tesoro di alcune esperienze come la cedolare sugli affitti o, da più tempo, le agevolazioni per ristrutturazioni, risparmio energetico e adeguamento antisismico.
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