«Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!» – dice Michele Apicella alla giornalista, seduto a bordo piscina con il caschetto da pallanuotista ancora indosso. «Le parole sono importanti» e non solo per il loro significato diretto. Le parole sono importanti anche per l’atmosfera che generano, le suggestioni che evocano, le impressioni che suscitano. Le parole sono importanti perché, al di là del loro senso più prossimo, accendono in noi ricordi, rendono palesi pensieri profondi e ci cambiano, ci fanno cambiare, modificano le nostre convinzioni, le aspettative che abbiamo sugli altri e, di conseguenza, per questa via, modificano le nostre decisioni.
Le scelte che facciamo, soprattutto quelle che coinvolgono anche altri, si fondano non solo su ciò che desideriamo o sulle finalità che ci diamo, sui nostri gusti o sui nostri valori; spesso si basano anche su ciò che pensiamo degli altri o che pensiamo che gli altri pensino di noi. Non si tratta solo di imitazi●one o conformismo, ma anche di vita sociale nella sua essenza. Se per esempio penso che qualcuno si fida di me perché mi ritiene una persona degna e affidabile, pensare a ciò che lui o lei pensa di me può spingermi ad essere effettivamente degno e affidabile. Se invece credo che mi reputino un inaffidabile opportunista, tradire quella fiducia mal riposta potrà essere per me più semplice; mi sentirò meno in colpa.
Ma fidarmi o non fidarmi di qualcuno dipende dall’idea che mi sono fatto circa la sua affidabilità. A parità di tutto il resto, sarò più o meno fiducioso con il variare delle mie aspettative. Il “dilemma del prigioniero” è forse il caso più famoso e studiato nell’ambito della teoria dei giochi, quella teoria matematica, usata da economisti, politologi, computer scientists, biologi e molti altri, per analizzare il comportamento strategico di soggetti che sono tra loro interdipendenti. Ogniqualvolta le conseguenze delle mie scelte dipendono non solo da ciò che faccio io, ma anche da ciò che fanno coloro con i quali, direttamente o indirettamente, sto interagendo, allora la teoria dei giochi mi può venire incontro indicandomi una condotta d’azione razionale.
Il dilemma del prigioniero, dicevamo, rappresenta uno scenario decisionale che mette a dura prova il nostro concetto di razionalità. Pensate a due ragazzi che vengono portati in caserma, una notte, sospettati di aver danneggiato la vetrina di un negozio. Come in ogni poliziesco che si rispetti, i due vengono interrogati in stanze separate. Immaginiamo, per semplificare le cose, che ognuno dei sospettati possa reagire alle domande dei poliziotti in due soli modi: o stando zitto, o accusando l’altro sospettato. Con queste due opzioni, gli scenari possibili saranno complessivamente quattro: stanno entrambi zitti; si accusano a vicenda; il primo parla e il secondo sta zitto o, viceversa, il primo sta zitto e il secondo l'accusa.
Questi scenari hanno esiti differenti: nel primo caso, se entrambi i soggetti si rifiutano di rispondere, la polizia non sarà in grado di raccogliere prove sufficienti e sarà costretta a rilasciare i ragazzi dopo avergli fatto passare una notte in gattabuia. Se, al contrario, si accusano a vicenda, allora la polizia li riterrà entrambi colpevoli e gli farà scontare tre giorni di prigione. Se, invece, uno tace e l’altro lo accusa, il primo verrà ritenuto unico colpevole e trattenuto per una settimana, mentre il secondo verrà rilasciato immediatamente. Se questa è la situazione, che fare? Quale sarà la condotta razionale, tacere o accusare? Come i più accorti tra i lettori avranno già intuito, benché l’esito collettivamente migliore sia quello che si ottiene stando zitti, la strategia ottimale per ogni sospettato è, invece, quella di accusare l’altro. Infatti, in questo caso, indipendentemente da quello che deciderà di fare la controparte, l’accusatore minimizzerà il tempo da passare in prigione.
Il problema è che questa scelta è ottimale per entrambi i sospettati, che saranno, dunque, indotti dalla loro razionalità ad accusarsi a vicenda. In altri termini, proprio cercando di ottenere il risultato individualmente migliore finiranno per farne emergere uno peggiore, sia dal punto di vista sociale che individuale. Se fossero stati in grado di cooperare, non accusandosi a vicenda, sarebbero stati rilasciati entrambi dopo solo una notte. Ma a volte razionalità e ragionevolezza divergono.
Il dilemma del prigioniero è stato studiato in migliaia di ricerche che, invariabilmente, mettono in luce come, anche con denaro sonante in palio e in condizioni di anonimato, contrariamente a quanto prevede la teoria, una buona percentuale, anche se molto variabile, di partecipanti tende a cooperare.
Diventa, a questo punto, interessante capire quali siano i fattori che fanno variare questa percentuale, quelli che facilitano e quelli che ostacolano l’insorgenza della cooperazione. Tra le migliaia di studi dedicati a questo tema ce n’è uno, in particolare, che ha rilevato un aspetto particolarmente sottile. L’esperimento su cui si basa lo studio è molto semplice: a due gruppi di soggetti si presentano due versioni del dilemma del prigioniero, uguali in tutto e per tutto tranne che per il fatto che nelle istruzioni che ricevono i partecipanti del primo gruppo, il gioco viene definito come il “gioco della comunità”, mentre in quelle del secondo gruppo, invece, lo stesso gioco viene etichettato come il “gioco di Wall Street”. Per il resto, i due gruppi si trovano nella stessa identica situazione. Cooperare o tradire? I risultati sono sorprendenti perché mentre nella prima situazione circa i due terzi dei partecipanti decide di cooperare, nel secondo gruppo, la quota di cooperatori si riduce a circa un terzo (Ross, L., Ward, A. (1996). Naive realism in everyday life: Implications for social conflict and misunderstanding. In Reed et al. (Eds.), Values and knowledge. Lawrence Erlbaum Associates).
Studi successivi hanno mostrato la robustezza di questo “effetto etichetta” anche in molte altre situazioni dilemmatiche differenti dal dilemma del prigioniero. Osserviamo come le nostre scelte sono facilmente soggette ad effetti contestuali: anche solo l’evocazione del concetto di “comunità” o quello di “Wall Street” ci porta a diventare più o meno cooperativi, a parità di condizioni. Cosa c’è alla base di questo meccanismo? Tendenzialmente nessuno di noi è totalmente altruista o totalmente egoista; piuttosto, tendiamo a vacillare tra queste due polarità. Ciò che ci spinge in una direzione o nell’altra, molto spesso, è ciò che pensiamo che faranno gli altri. Ci comportiamo, cioè, come “cooperatori condizionali”: facciamo delle congetture circa il comportamento degli altri e adattiamo, condizioniamo, il nostro al loro. Cooperiamo con chi pensiamo sia disposto a cooperare e, viceversa, non cooperiamo con chi crediamo non sia disposto a cooperare. Gli studi mostrano che l’«effetto etichetta» agisce proprio in questo processo di formazione delle aspettative: “comunità” evoca individui cooperativi, mentre “Wall Street” ci fa venire in mente gli squali della finanza, gente egoista e senza scrupoli. Così, pur non agendo sulla nostra struttura di preferenze, sui gusti o sui nostri valori, le etichette, modificando le nostre aspettative sugli altri, producono modificazioni nelle nostre scelte (Ellingsen et al. 2012. Social framing effects: Preferences or beliefs? Games and Economic Behavior 76(1), pp.117-130).
Gli psicologi Daniel Kanheman e il suo collega Amos Tversky hanno definito questo fenomeno “framing”, incorniciamento. La descrizione di una situazione decisionale, il suo incorniciamento, pur non modificando i termini sostanziali della questione, altera la percezione dei decisori e quindi le loro scelte. Quando tale “framing” avviene a livello sociale l’effetto può essere notevole. È possibile influenzare il comportamento delle persone senza cambiarne i valori e le credenze, ma solo intervenendo sulla percezione che questi hanno degli altri. Pensiamo al lessico politico che si è fatto spazio in Italia negli ultimi anni. Espressioni come “gufi” o “rosiconi” costruiscono un “frame” che veicola il messaggio che se qualcuno la pensa diversamente da noi, è essenzialmente un invidioso. “Professoroni” o “competenti” vengono usate in senso dispregiativo per indicare saccenti privi di ogni senso pratico. “La pacchia è finita”, “buonisti”, “chiudiamo la mangiatoia” o “gretini” sono espressioni che costruiscono un frame nel quale alcune categorie di persone vengono dipinte come formate da parassiti e approfittatori, o al meglio, illusi sprovveduti.
Secondo la logica della cooperazione condizionale, con queste persone non si deve neanche discutere, non si può collaborare, le loro posizioni non vanno neanche prese in considerazione; vanno isolate. Se una semplice etichetta, “comunità” o “Wall Street,” ha un effetto così forte nel modificare la disponibilità alla cooperazione di soggetti anonimi, possiamo immaginarci quanto un linguaggio politico così evocativo e carico di emotività e al contempo semplice e comprensibile a tutti, possa influenzare il comportamento di tanti.
Il meccanismo è tanto più efficace quanto più facile da utilizzare nell’era dei social. Ci troviamo immersi in un certo lessico, moltiplicato e amplificato dalle interazioni che abbiamo sui social, principalmente con persone che la pensano come noi e che quindi usano lo stesso linguaggio; questo, modificando, non tanto i nostri valori, il che implicherebbe un processo lungo e complesso, ma le nostre aspettative sugli altri, influenza profondamente le nostre scelte, ci rende più o meno cooperativi, più o meno capaci e disposti a fare le cose insieme. Mi si dirà che così come c’è un frame “cattivista”, allo stesso modo c’è un frame “buonista”. Tutti sono influenzati dagli “effetti etichetta”. Certamente! Ma non tutte le cornici sono uguali. Quelle che inducono alla cooperazione tra cittadini, rappresentano un bene pubblico, collettivo, proprio per la loro capacità di creare valore condiviso, mentre quelli che la ostacolano e la scoraggiano, sono, in realtà, un male pubblico, qualcosa che, alla lunga, riduce il benessere di tutti.
Dovremmo, quindi, imparare a conoscerli questi “frames”, a comprenderne l’uso per poterli disarticolare e dovremmo soprattutto iniziare a premiare, indipendentemente dalla parte politica da cui provengono, quei modi e quel lessico che creano coesione e capitale sociale, così come dovremmo iniziare a diffidare di chi crea strumentalmente divisioni anche là dove, in realtà, non ci sarebbero, che alimenta la diffidenza, il sospetto e un senso di generale insicurezza. Non serve mandare bacioni con la destra se poi, con la sinistra, si inducono i cittadini a denigrare altri cittadini solo perché non la pensano allo stesso modo. È un giochetto pericoloso. Abbiamo bisogno di tutt’altro.
Abbiamo urgente bisogno di “cornici” più inclusive, illuminate e illuminanti, che ci facciano vedere nell’altro un potenziale partner, un socio, un collaboratore e non un limite, un opportunista o, addirittura, un nemico. Se vogliamo davvero lavorare per il bene di questo Paese, di tutti i suoi cittadini, iniziamo a promuovere le condizioni che favoriscono lo sviluppo di un tessuto di relazioni sociali, fitto e coeso, produttivo e collaborativo. Meno baci finti e più rispetto vero, please!
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