È probabile che alle prossime elezioni europee l’astensionismo si riconfermi maggioranza, come accadde nelle elezioni del 2014 (57% di non votanti). Nelle ultime quattro consultazioni, la soglia del 60% è tuttavia rimasta inviolata. Diversi segnali ci dicono che lo rimarrà anche nel 2019, proprio per l’insorgenza di movimenti sovranisti-populisti nei territori periferici o semiperiferici della Ue, dove più debole è il feeling di appartenenza e più ampia la distanza da un’Europa che conta, nel cuore delle sue grandi capitali.
L’avanzata astensionista non ha turbato più di tanto la politica europea, ancora ripiegata sugli Stati nazionali (ora più che mai, con l’insorgenza sovranista), se non per il fatto che si correla alla fastidiosa crisi di fiducia, che, a cascata, da anni corrode partiti, istituzioni europee, nazionali, regionali, municipali. Certo c’è un’area di cittadini che si astiene per lealtà passiva, più che per manifestare sfiducia: un’area apolitica che scambia indifferenza con lealtà alle istituzioni. Non esercita il diritto di voto, si adatta al vincente. Di conseguenza, non tutto l’astensionismo equivale a sfiducia, a basso senso d’appartenenza. Ciò non toglie l’evidente correlazione tra calo della fiducia, crescita astensionista e restringimento del perimetro del mercato elettorale attivo europeo a una minoranza di voti (attorno al 40%).
Il recupero di fiducia e di senso d’appartenenza al progetto politico europeo richiederebbe un serio contrasto dell’astensionismo, ricorrendo forse a sanzioni per casi nazionali che hanno ridicolizzato il mercato politico europeo. Come la Slovacchia: 5,4 milioni di abitanti e un impresentabile 13% di votanti alle europee del 2014. È un piccolo Stato Ue che, a dispetto del suo deficit elettorale, ha ottenuto fondi europei (2.803 euro pro-capite negli ultimi 7anni) in misura proporzionalmente maggiore di due Paesi mediterranei in difficoltà come Italia (738 euro) e la Grecia (1.990 euro). Si tratta di un’evidente sovra-rappresentazione in sede Ue in rapporto alla capacità di mobilitazione elettorale reale.
La mappa dell’astensionismo (2014) evidenzia un’Europa polarizzata tra il suo cuore “che conta” (nel Benelux si era astenuto 1 su 10) e la periferia (nelle Repubbliche Ceca e Slovacca si erano astenuti poco meno di 9 su 10!). In tutti i Paesi del Gruppo di Visegrad dorme il conformismo astensionista: difficilmente votano più di 3 elettori su 10, nella stessa Polonia. Eppure, i Paesi dell’Est Ue sono ormai da anni integrati con generosi fondi europei e investimenti privati dell’Ovest (Infodata, Il Sole 24ore 21 aprile 2019). Grazie all’impegno tedesco, durante la crisi, hanno certamente sofferto meno dei Paesi sudeuropei.
Il non voto è, tuttavia, maggioranza in quasi tutti i Paesi Ue. La sua crescita più veemente è avvenuta nell’Europa del Sud, con un dimezzamento dei votanti negli ultimi 30-40 anni, con un’accelerazione nel nuovo secolo. I Paesi sudeuropei sono passati negli ultimi 15 anni da una partecipazione elettorale e da una fiducia verso la Ue alte, a un livello medio-basso riguardo entrambe. La crisi economica ha inciso sul sentiment europeista nelle vaste aree mediterranee del discontento semiperiferico e periferico, affette dalle loro ben note difficoltà di crescita e lavoro. Nell’Europa meridionale, ex filoeuropeista, sono cresciute sia l’astensione che la voice, la protesta antieuropea populista e sovranista.
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Numeri inconfutabili ci dicono che l’astensionismo è un indicatore della diffusione di un sentiment di “discontento” verso la Ue in due aree diversamente problematiche, a Est e Sud, territori periferici dove più difficilmente il senso d’appartenenza si riferisce all’Europa, come invece avviene nelle sue grandi città strategiche. Dalle periferie territoriali si ha la sensazione di non contare nulla sullo scacchiere europeo.
Di conseguenza, i problemi dell’astensionismo non si risolvono rendendo il voto europeo obbligatorio, come in alcune ipotesi circolanti. L’obbligo non creerebbe fiducia e agirebbe sull’anello debole del mercato, la domanda di politica dei cittadini europei. Al contrario, occorrerebbe spingere l’offerta politica a migliorare la qualità del suo discorso e della sua visione europea. Tuttavia, al fine anche di recuperare al voto parte dell’astensione, sarebbe forse opportuna una qualche forma di penalizzazione sui fondi europei o una sostanziosa riduzione dei seggi in palio alle elezioni, che scatterebbe con fasce progressive, magari a partire da -50% dei votanti.
Il sistema europeo diverrebbe centro di maggiore attenzione della politica, oggi ancora troppo chiusa negli invasi nazionali e locali, troppo intenta a “durare” più che a contrastare l’indifferenza civica battente. Il sistema politico europeo si rinsalda anche costituendosi per un’azione dovuta di recupero dell’area maggioritaria del non voto. Ha però necessità di maggior qualità dell’offerta politica e di quantità superiori di partecipazione civica. Due facce della stessa medaglia su cui la politica è chiamata ad agire.
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