La proposta di Fca di realizzare una fusione “alla pari” con Renault è stata bene accolta dal suo consiglio di amministrazione e dai suoi azionisti, nonché da un atteggiamento costruttivo di governo e sindacati francesi. È stata buona l’accoglienza anche da parte italiana, benché la Borsa abbia premiato più Renault che Fca.
Tanto favore verso il progetto di fusione è spiegato dalla buona integrazione e dalla bassa sovrapposizione dei modelli dei due gruppi automobilistici, e dalla relativa complementarietà di mercati e dei segmenti in cui operano sono presenti.
Ma soprattutto dalle notevoli economie di scala, derivanti non tanto da potenziali tagli di costi – di qui la reazione positiva di governi e sindacati – quanto dalla maggiore capacità di assorbire gli ingenti costi di investimento necessari per sviluppare la piattaforma di un nuovo veicolo, data anche l’incertezza sullo standard vincente delle auto di domani (elettrico, ibrido, a guida autonoma), destinato a rimpiazzare quello prevalente da cent’anni, basato su motore a scoppio e trasmissione.
Ma il merger of equals presenta notevoli rischi, soprattutto per Fca. Il primo è insito nella natura dell’operazione, con la quale i soci delle due imprese conferiscono le loro aziende in un unico veicolo in cambio di quote paritetiche e di una governance congiunta. Dunque, un’unione solo formale: a differenza delle fusioni vere e proprie, dove uno compra e l’altro vende, non è chiaro chi implementerà la vera integrazione, di fatto rinviata a un momento successivo. Lo stesso dicasi per la nuova governance, che non potrà mai essere una co-gestione.
Il secondo rischio sta nel prezzo implicito che i soci di Fca pagherebbero. La borsa valuta Fca 22,5 miliardi di euro, 6 in più di Renault; e il dividendo straordinario che Fca corrisponderebbe prima del merger potrebbe non bastare a ribilanciare i valori. Facendo sempre riferimento alle valutazioni di mercato, Fca vale quasi il doppio rispetto al suo patrimonio netto (0,70 volte rispetto a 0,44), pur avendo lo stesso margine operativo atteso per il 2019 di Renault (circa 6%) e avendo chiuso l’anno scorso con un utile netto di 3,3 miliardi, in linea con i 3,4 della francese: è una indicazione che Fca opera in modo più efficiente di Renault e ha una redditività superiore.
Infatti, Fca ha generato nel 2018 un free cash flow più che doppio della francese (4,5 miliardi contro 1,9), pur avendo fatto un miliardo in più di investimenti e operando con un capitale investito netto inferiore (32 miliardi contro 40). Una gestione quindi più molto efficiente che si è tradotta in un rendimento sul capitale investito l’anno scorso di circa 10% per Fca, nettamente superiore al circa 8% di Renault (differenziale che sale ancora se si guarda al return on equity atteso per il 2019). Per Fca l’obiettivo del merger, e la sfida, è portare redditività ed efficienza di Renault ai propri livelli; in caso contrario (non infrequente in tante fusioni) per gli azionisti di Fca sarebbe una distruzione di valore.
Un altro dato chiarisce la vera potenzialità e il maggior rischio della fusione per Fca: più di un terzo dell’utile netto di Renault l’anno scorso è venuto dalla partecipazione in Nissan. Ai corsi attuali, questa partecipazione vale 11 miliardi di euro, che corrisponde a un terzo del valore di mercato di tutte le attività di Renault (al netto di Nissan). Il vero valore del merger è qui. Per quanto rilevante sia l’integrazione industriale con Renault, per Fca la più grande potenzialità risiede nella valorizzazione della partecipazione nella casa giapponese: se nel merger si riuscirà a integrare anche Nissan, gli azionisti di Fca potranno brindare. A patto, naturalmente, che il progetto non frani sulla governance e sulla scelta del capo azienda, come troppo spesso accade in queste operazioni.
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