NEW YORK - A Wall Street la chiamano “la variabile Trump”. L’elemento imponderabile, quel guizzo che ogni tanto anima il presidente
americano nei suoi tweet incontrollati e che manda in bambola i mercati finanziari. Così è stato per i dazi al Messico, per fortuna rientrati. Così è stato a inizio maggio per l’escalation della trade war con la Cina, lo stop ai negoziati con Pechino, il tiro al
piattello su Huawei.
Un executive del trading di Bank of America, uno di quelli che passa le giornate attaccato ai video e ai tweet presidenziali,
cercando di fiutare il vento prima che cominci a soffiare, mi ha raccontato un aneddoto su Larry Kudlow. Il capo dei consiglieri
economici di Trump, prima di buttarsi nell'avventura della Casa Bianca ha lavorato a lungo a Wall Street come analista finanziario.
È stato capo economista di Bear Stearns ed è molto rispettato nel mondo finanziario per la sua esperienza e competenza, anche
da chi non condivide le sue posizioni conservatrici. Viene visto, assieme al responsabile del Tesoro Stephen Mnuchin, come
il lato razionale, geometrico, con i piedi per terra insomma dell'amministrazione Trump. All'altro lato della squadra dei
consiglieri presidenziali, quello duro e puro dei falchi, della guerra commerciale a tutti costi, del saldo da far tornare
attivo, del protezionismo e dell'unilateralismo americano dopo un secolo e più di paese guida delle nazioni: l'economista
Peter Navarro, il responsabile al commercio Robert Lighthizer e il consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton.
Ogni volta che Kudlow è assente Trump si lancia nei tweet più arditi che scuotono i mercati e nessuno lo ferma. Era successo,
mi ha raccontato l’amico di BofA, già una volta a fine 2018 quando il consigliere ragionevole dopo un attacco cardiaco era
stato costretto al ricovero diverse settimane negli ospedali di Bethesda, in Maryland, dove si curano i presidenti, a poca
distanza dalla capitale federale, prima della tregua armata del G 20 argentino. È successo di nuovo qualche settimana fa:
Kudlow è entrato in ospedale per un intervento a un'anca e Trump ha minacciato di tassare tutti i prodotti messicani, quando
ancora deve essere ratificato il nuovo accordo di libero scambio. Una decisione che avrebbe rallentato l'economia americana,
considerando che molte aziende Usa – vedi Gm – producono componenti che arrivano dal paese, e considerando anche come ricordavano
in queste settimane le associazioni dei produttori manifatturieri, che gran parte delle società che lavorano al confine con
il Texas dipendono dalle forniture messicane.
Insomma i dazi al Messico non potevano proprio funzionare. Sono serviti al presidente per ottenere qualcosa in cambio nella sua lotta elettorale contro i migranti. Ma non sarebbero mai stati adottati per il rischio di far frenare l'America.
Trump lo sa. E sa anche che questa eventualità – una crisi economica - è forse l'unico pericolo vero che potrebbe ostacolare una sua rielezione il prossimo anno. L'americano della strada – è un refrain ormai – ripete che i dati economici danno ragione al presidente. Quindi tutti lo rivoteranno, nonostante i tanti se e ma legati alla sua persona, ai rapporti con la Russia in campagna elettorale, al suo essere fuori dagli schemi, alla irritualità istituzionale e diplomatica. Tutto quello che i trader di Wall Street riassumono nella frase “la variabile Trump”.
Di nuovo ieri il presidente americano in una iperbolica intervista telefonica con Cnbc ha parlato a ruota libera della sua
visione del mondo: ha rivendicato il successo delle sue politiche commerciali, è tornato ad auspicare il taglio dei tassi della Fed, ha rilanciato nuove minacce alla Cina e ha anche detto che bisogna tassare i vini francesi (e quelli italiani, considerando che la politica agricola e quella commerciale sono decise dall'Unione europea) per via delle
tariffe all'import europee più elevate di quelle americane.
«I dazi sono una cosa buona», ha detto il presidente. «Il rischio dazi ha spinto il Messico a rafforzare le sue politiche
contro i migranti». Una strategia che avrà presto successo con Pechino, secondo lui. Trump è sicuro: la Cina presto «siglerà
un accordo, perché dovrà farlo», altrimenti «scatteranno nuovi dazi».
I dazi con il Messico non potevano partire. Dopo un mese di maggio che ha bruciato 5mila miliardi di dollari di capitalizzazione
nei mercati finanziari mondiali. Con un Pil Usa che nel primo trimestre è stato del 3,1%, ma che secondo le stime messe assieme
da oltre 50 studi di recente dalla National Association for Business Economics scenderà al 2,6% nel 2019 e al 2,1% nel 2020.
Una decisa frenata per la Corporate America rispetto alla crescita del 2,8% registrata nel 2018, l'anno del taglio delle tasse
alle aziende. Venerdì scorso quando il Dipartimento al Lavoro ha rilasciato i dati di maggio che mostrano una brusca frenata
delle assunzioni (75mila contro le 180mila attese) Trump era ancora in Irlanda e si preparava a tornare a casa. Non ci sono
stati tweet altisonanti come al solito. Poche ore dopo è arrivata la notizia dell’accordo tra le due delegazioni a Washington
per evitare i dazi al Messico. Kudlow è in convalescenza, ma persino il capo dei falchi Navarro era arrivato a sconsigliare
la nuova ondata di dazi, lasciando intravedere, come è stato, una schiarita.
Una frenata dell’economia americana sarebbe dunque disastrosa per la campagna elettorale e per la rielezione di Trump. Per questo motivo la “variabile Trump” continuerà ad agitare ancora nel prossimo futuro le giornate dei trader a Wall Street.
La direzione potrebbe essere sorprendente. A partire dalla guerra con la Cina, che in qualche modo potrebbe rientrare per
far tornare l'ottimismo nell'economia e nelle Borse. Già a fine mese potrebbe accadere qualcosa, quando Trump incontrerà il
presidente cinese Xi Jinping al G 20 di Osaka. E poi c'è la storia della Fed. Il governatore Jerome Powell continua a essere
assediato dai fedelissimi di Trump e dallo stesso presidente, nella richiesta, ormai un coro, di un taglio dei tassi a sostegno
della crescita che la banca centrale non esclude più e che potrebbe avverarsi nella seconda metà dell'anno.
La variabile Trump è già partita: giovedì dalla Normandia per le celebrazioni del D-Day il presidente intervistato da Laura Ingraham su Fox News ha rilanciato le sue bordate contro il governatore della banca centrale americana, peraltro scelto da lui: «Se non lo avessimo, saremmo al 5,2% di crescita del Pil e i mercati azionari sarebbero oltre diecimila punti più su». Troppo anche per la rete amica Fox News. Tanto che la stessa giornalista dopo l’intervista è tornata sulle parole di Trump e ha preso le distanze dalle ardite previsioni economiche presidenziali, definendole “fake news”. Suscitando, ovviamente, l’ilarità delle reti televisive concorrenti.
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