NEW YORK - “World war web”. Parafrasando l’acronimo della rete, qualche mese fa la copertina di Foreign Policy preannunciava quanto sta avvenendo. Internet è nata negli Stati Uniti. Negli ultimi decenni ha spinto la crescita mondiale e cambiato la vita di tutti. La Cina nella sua lunga marcia di sviluppo economico rischia di conquistare la leadership del digitale e delle tlc. Così la sfida per l’Internet del futuro è diventata una priorità nazionale per l’America di Trump. Una costola importante nella più ampia trade war scatenata per contenere l’espansionismo economico cinese.
Huawei è il campione industriale cinese nelle tlc, cresciuto in maniera esponenziale in pochi anni. L’azienda è prima al mondo negli apparati di rete tlc. Seconda negli smartphone, dopo Samsung e prima di Apple. E non ha mai nascosto le sue ambizioni da primato. Un primato che gli Stati Uniti cercano di ostacolare, nel tentativo di riequilibrare i conti a loro favore. Così in questi mesi si sono scatenate varie azioni contro Huawei accusata di spionaggio con “backdoor” nelle apparecchiature di rete, di copiare prodotti di società americane, di aver violato le sanzioni contro l’Iran. Inchiesta da cui è derivato l’arresto della cfo Meng Wanzhou, la figlia del fondatore Ren Zengfhei, tuttora in attesa di estradizione in Canada. Arresto clamoroso avvenuto il primo dicembre, nelle stesse ore in cui Trump al G-20 di Buenos Aires siglava la tregua con il presidente cinese Xi Jinping.
La scorsa settimana Trump ha emesso un’ordinanza che vieta alle società americane di usare apparati di tlc prodotti da aziende straniere, adducendo minacce alla sicurezza nazionale e alla politica estera americana. Decisione pensata in chiave anti-cinese, contro Huawei e Zte, anche se le due società non sono citate. Poche ore dopo l’Ufficio per l’industria e la sicurezza (Bis) del Dipartimento al Commercio ha inserito Huawei e 68 società affiliate in un elenco di aziende a cui è vietato acquistare tecnologia made in Usa.
La conseguenza è lo stop annunciato da Google nella fornitura a Huawei dei servizi su licenza legati al suo sistema operativo Android, che ieri ha tenuto in scacco le Borse. Huawei potrà continuare a utilizzare Android Open Source (Aosp), la parte aperta del sistema operativo di Google per i telefonini, il più diffuso al mondo utilizzato secondo i dati della società da 2,5 miliardi di persone, ma non avrà più accesso ai servizi legati ad Android, e venduti su licenza, come le mappe, Gmail, YouTube, PlayStore e il browser Chrome. Un danno enorme per Huawei e per le sue ambizioni a diventare prima al mondo negli smartphone.
Huawei da tempo si sta preparando allo scenario peggiore. La controllata HiSilicon ha sviluppato microchip di riserva per far fronte allo stop ai chip made in Usa, e sta lavorando alla realizzazione del suo sistema operativo per smartphone, Kirin Os. Ma sarà difficile sostituire quanto offerto dai servizi Google. Oltre a Google, in seguito al divieto di Trump, hanno già sospeso le forniture a Huawei i produttori americani di chip Intel, Qualcomm, Xilinx e Broadcom. Intel è il principale fornitore di chip per i server della società cinese. Qualcomm vende processori e modem per gli smartphone. Xilinx e Broadcom forniscono chip per le reti tlc.
A Pechino non mancano le reazioni all’escalation americana. Il governo ha fatto sapere che sosterrà le azioni legali per proteggere i diritti delle aziende cinesi all’estero. Il portavoce del ministero degli Esteri accusa gli Stati Uniti di nutrire «aspettative stravaganti» per un accordo con la Cina, e ha sottolineato la distanza crescente tra i due Paesi, dopo l’azione contro Huawei che ha colpito il settore tecnologico globale. Nei media non mancano appelli nazionalistici.
L’editorialista del Global Times, il tabloid del partito comunista cinese, propone il boicottaggio dell’iPhone. Allargando il campo alle trattative sulla trade war, non ci sono al momento trattative in programma tra le due delegazioni. «I negoziati sono falliti perché gli americani hanno cercato di raggiungere obiettivi irragionevoli attraverso pressioni estreme», ha detto il portavoce degli Esteri. L’unico appuntamento in agenda è l’incontro tra Trump e Xi al G20 di Osaka a fine giugno. I rapporti tra le due prime potenze mondiali non sono mai stati così tesi.
Trump di sé, dai tempi in cui vendeva grattacieli, ha sempre detto che l’unica cosa che sa fare è l’arte di negoziare. L’America First ha sparigliato le carte degli equilibri globali. Ispirato dall’economista protezionista Peter Navarro, da Robert Lighthizer, da Larry Kudlow e da John Bolton, i falchi dell’amministrazione, il presidente ha spinto in questi anni a rivedere tutti i trattati commerciali a favore degli Usa. Oltre alle dispute con la Cina, finora è riuscito a portare a casa solo l’accordo con la Corea del Sud. Ha siglato il nuovo trattato con Canada e Messico, in attesa di ratifica. Si prepara a negoziare un accordo con il Giappone: il 24 maggio Lighthizer incontrerà a Tokyo il ministro dell’Economia Toshimitsu Motegi. E vuole arrivare a un accordo con l’Unione europea, con la minaccia dei dazi alle auto sospesi per ora, come arma negoziale.
In molti intravedono scenari di tempeste in arrivo per l’economia mondiale in queste ore. Qualcuno teme una «prossima crisi finanziaria globale». Henry Paulson su tutti, ex segretario al Tesoro di George W. Bush, sostiene che le relazioni travagliate tra Stati Uniti e Cina sono un rischio anche per l’economia americana: «Il problema quando usi il martello è che rischi di rompere tutto».
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