Osservato dall'epicentro, il terremoto dell'Ilva ha prodotto a Taranto un cratere di paure e di declino e ha propagato le sue onde d’urto sull’intera economia italiana. Nei sette anni perduti dell'Ilva, dagli arresti e dal sequestro del 26 luglio 2012 fino alla lettera di “recesso” da parte del colosso anglo-indiano ArcelorMittal, sono andati in fumo 23 miliardi di euro di Pil, l’1,35% cumulato della ricchezza nazionale. L’ex Ilva è una questione nazionale: il Nord industriale, cuore della meccanica, del bianco e della componentistica auto che di acciaio si nutrono, ha visto bruciare 7,3 miliardi di Pil.
Bilancio fallimentare
Taranto, che da capitale industriale del Sud ha vissuto l'infelice paradosso di sperimentare il problema dell’impatto sulla
salute e sull’ambiente di una industria di base novecentesca e di avere però livelli di reddito e di benessere materiale paragonabili
al Nord, si sta meridionalizzando anche nelle statistiche. E, a sette anni dagli arresti e dal sequestro della fabbrica allora di proprietà dei Riva, il bilancio consolidato degli
effetti sull'economia italiana continua a peggiorare. Con una specificazione: l’effetto è particolarmente consistente nel
Nord industriale, a significare che l'Ilva è una questione nazionale.
Taglio alla produzione
Secondo l'aggiornamento dell'analisi econometrica compiuta dalla Svimez per Il Sole 24 Ore, l'impatto sul Pil nazionale è
pari ogni anno, fra il 2013 e il 2018, a una perdita secca compresa fra i 3 e i 4 miliardi di euro, circa due decimi di punto di ricchezza nazionale. Nel 2019, questa riduzione verrà resa più onerosa dalla decisione di Arcelor
Mittal di mantenere a 5,1 milioni di tonnellate la produzione di acciaio, anziché i 6 milioni promessi appena arrivati a Taranto:
nel 2019, la ricchezza nazionale bruciata sarà di 3,62 miliardi. Negli anni perduti dell'Ilva, fra 2013 e 2019 è stato cancellato
Pil per 23 miliardi di euro, l'equivalente cumulato di 1,35 punti percentuali di ricchezza italiana.
Il modello econometrico della Svimez, questa volta, evidenzia un dato che non era mai emerso: di questi 23 miliardi di euro di Pil, quasi sette e mezzo (7,3 per la precisione) riguardano il Nord industriale, cioè il Veneto, l'Emilia Romagna, il Piemonte, la Liguria e la Lombardia. Quel Nord industriale che ha una delle sue ossature principali nella metalmeccanica (e, oggi, Federmeccanica tiene la sua assemblea a Taranto). Non si stupisce della pervasività della crisi dell’Ilva Rocco Palombella, leader dei metalmeccanici della Uil, il sindacato maggioritario in fabbrica.
La vocazione produttive Iri
Palombella è di Faggiano, a dieci chilometri da Taranto. È nato il 5 dicembre 1955 e il 5 dicembre1973, il giorno dei suoi
diciotto anni, è stato assunto con il diploma da perito industriale all'allora Italsider, matricola 16.673/8. Quelli erano
i tempi del raddoppio dello stabilimento, con la creazione degli altoforni 4 e 5. Allora si credeva alle magnifiche sorti e progressive dell’industrializzazione pesante
del Sud, con i grandi impianti concepiti, finanziati e realizzati dall'Iri che avrebbero dovuto assegnare a quest'ultimo una
vocazione produttiva radicale e persistente.
Oggi è il tempo di un disorientamento dell’intera manifattura italiana di cui il caso estremo dell’Ilva di Taranto, con il suo caos ambientale-giudiziario-politico-industriale non ancora risolto, racconta molto. Dice Palombella: «L'impatto sul Nord industriale è stato immediato e profondo. Non avere un produttore di prossimità ha provocato difficoltà. Il vuoto produttivo di Taranto si è trasmesso a tutto il resto della economia nazionale: la metalmeccanica, la componentistica automotive, il bianco».
Economie integrate
Sì, perché l'economia nazionale fra Nord e Sud resta, nonostante le divaricazioni crescenti, molto integrata. Fra 2013 e 2019,
a causa della crisi dell'Ilva sono stati eliminati export delle imprese per 10,4 miliardi di euro e consumi delle famiglie
per 3,5 miliardi.
E, osservando da Taranto il combinato disposto di implosione locale e di esplosione nazionale, non si può non notare come poi tutto il resto del sistema industriale nazionale abbia avuto un problema di fornitura. «Il valore del maggior import di acciaio dall'estero – spiega Stefano Prezioso, ricercatore della Svimez – è stato pari a 4,1 miliardi di euro». Una cifra consistente, fatturata da produttori di stranieri: «In particolare – riflette Palombella – sono entrati nel nostro mercato i cinesi e i coreani, a sostituire un prodotto dell'Ilva che è sempre stato di buona qualità, ma elementare».
Implosione locale
Nel meccanismo del terremoto dell'Ilva, che sembrava avere trovato un punto di equilibrio e di ricomposizione nell'assegnazione
della acciaieria commissariata alla Arcelor Mittal che però in una logica di gruppo ha ridotto la produzione al calo della
domanda europea di acciaio, non c'è soltanto l’esplosione nazionale, ma anche l'implosione locale. Implosione locale che ha
reso parossistica ed estremamente dolorosa l'attitudine adattiva della manifattura italiana.
Eredità irrisolte
Le seicento aziende associate (la metà del tessuto produttivo tarantino) sviluppano il 35% del fatturato con il Nord, il 40%
con il Sud (quel che resta della vecchia industrializzazione pubblica), il 25% con l'export. Sette anni fa, quando tutto ebbe
inizio, l'export non superava il 10% e anche la committenza nazionale era molto più concentrata, riguardando pochi grandi gruppi. Inoltre, nel 2012 la metalmeccanica
era egemonica: usando l'indicatore grezzo del numero delle aziende associate, il 60% afferiva alla metalmeccanica (ora questa
quota è il 40%), la moda era residuale (oggi invece il fashion tarantino esiste) e l'agroalimentare era di matrice soprattutto
agricola.
Racconta Vincenzo Cesareo, presidente uscente di Confindustria Taranto e titolare nell'impiantistica del Comes Group (40 milioni di fatturato, 480 addetti, il 40% di export): «A sette anni dall'inizio di tutto, possiamo dire che è stato un vero shock culturale, giudiziario e finanziario. Ancora oggi le nostre imprese hanno 150 milioni di crediti non incassati dall'Ilva». Anche questa è una eredità irrisolta, nello strano caso dell'Ilva, iniziato sei anni fa d'estate qui a Taranto e arrivato ad un nuovo punto di squilibrio adesso, in questo che sembra così tanto un precoce autunno italiano.
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