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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2012 alle ore 08:42.

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Senza soldi non si cantano messe, si diceva una volta. Figuriamoci far suonare un'orchestra che di per sé è «una rovina economica», meglio ancora «la rappresentazione esatta del deficit strutturale».

Tolta qualche rara, virtuosa eccezione, le filarmoniche soffrono in tutto il mondo, colpa del «volume della produzione che è rimasto lo stesso di cento anni fa» a fronte di costi che invece sono sensibilmente lievitati. Ma più che mai, coi tempi che corrono, le orchestre europee sono chiamate a scegliere tra il cambiamento e l'estinzione: non è infatti immaginabile la sopravvivenza di enti che dipendano per l'80% da finanziamenti pubblici.

Lo sostiene «El País» in un articolo dal titolo evocativo: «Es el dinero el que lleva la batuta». Qualcosa del tipo: «È il denaro a far alzare la bacchetta». L'autore Daniel Verdú Palay, interpellando l'economista Robert Flanagan dell'Università di Stanford, arriva a definire una specie di «regola aurea» che dovrebbe garantire lunga vita a una fondazione lirico sinfonica: «aumento dei ricavi dell'attività artistica, riduzione dei costi di manodopera e incremento delle entrate da altre fonti (affitto dei locali, tour, servizi internet)», senza dimenticare un contributo importante da parte del mecenatismo.

Ragionamento che rimanda idealmente ai lavori degli Stati generali della cultura del Sole 24 Ore che si terranno quest'oggi al Teatro Eliseo di Roma con la partecipazione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un momento pubblico di riflessione intorno alle enormi potenzialità - mai fino in fondo capitalizzate - della cultura del nostro Paese, cui prenderanno parte tra gli altri i ministri della Coesione territoriale Fabrizio Barca, dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi, dell'Istruzione Francesco Profumo e dello Sviluppo economico Corrado Passera.

L'allarme del «País»
Il discorso compiuto dal quotidiano iberico parte dalla costatazione della crisi che colpisce le orchestre un po' in tutto il mondo. Negli Stati Uniti - dove un ente lirico sinfonico si regge per il 45% sulle risorse dei privati, per il 37% sugli introiti, per il 13% su interessi che derivano da investimenti e risparmio e solo per il 5% da trasferimenti pubblici - soffrono in particolare le orchestre delle città minori che per forza di cose non riescono appetibili agli sponsor. In Europa, Spagna e Italia in primis, dove secondo l'analisi del «País» il sostegno statale arriva a rappresentare quasi l'80% delle risorse in cassa, il rischio di estinzione risulta concreto. A meno che non si cambi registro e si interpreti il proprio ruolo in maniera «innovativo».

Qualcosa sta cambiando
Sarà anche vero che in Italia, come in gran parte dell'Europa, il sistema risulta ancora dipendente dalle risorse pubbliche, ma «a piccoli passi si procede verso un orizzonte di maggiore autonomia finanziaria». Ne è convinta Rosanna Purchia, soprintendente dell'antichissimo Teatro San Carlo di Napoli e protagonista della stagione del risanamento della Fondazione che fino a qualche anno fa aveva i conti sottosopra. «Mi limito a parlare – continua – della nostra esperienza: oggi a Napoli le risorse proprie del San Carlo, tra introiti e sponsorizzazioni, coprono il 35% del bilancio. L'obiettivo è arrivare col tempo al 50 per cento. Finora si è insistito con il merchandising, le tournee, l'apertura del teatro a eventi speciali. Tocca proseguire su questa strada, consapevoli che l'Italia non è l'America». Già, i privati da queste parti non godono di sconti fiscali se praticano la nobile arte del mecenatismo. «Questa è una componente del problema, – secondo la Purchia – qui bisogna lavorare per mettere i privati in condizione di investire con maggiore decisione. Ma un sistema nel quale lo Stato scompare totalmente dalla cultura neanche mi piace».

«Privati sì, ma con lo Stato»
La soprintendente ha paura infatti che dagli Usa possano arrivare anche le patologie del sistema: «In America – spiega – funzionano le orchestre delle grandi città, quelle in cui si concentrano economie importanti. Ci sono i soldi, arrivano gli sponsor. Qui in Italia per ora soltanto la Scala riesce a recuperare cifre davvero consistenti dalle sponsorizzazioni. Conterà la bravura dei musicisti, la tradizione, il brand ma contano pure le disponibilità del tessuto produttivo di riferimento. Un modello tutto sponsor e poco Stato – aggiunge la Purchia – finirebbe col mettere fuorigioco i teatri delle cosiddette città periferiche. Un rischio dal quale dobbiamo tutelarci». Su una cosa, tuttavia, non si può non convenire: «Così tuttavia – conclude la soprintendente – non potremo andare avanti a lungo».

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