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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2014 alle ore 10:29.

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f) Come tenere desta la tensione del lettore per 900 pagine, senza sommergerlo di grottesche rivelazioni o triviali colpi di scena? È una cosa che, leggendo Il cardellino, non facevo che chiedermi, mentre una pagina tirava l'altra come una ciotola di pistacchi. Da principio ho incolpato l'intreccio. Lasciare in sospeso una scena dall'inizio alla fine del libro è sempre un ottimo modo per stimolare la curiosità del lettore e il desiderio di andare avanti. Strada facendo però, mentre quella scena iniziale sbiadiva nella memoria, mi sono reso conto che non poteva essere questo. Sentivo che l'idea di chiudere il cerchio aperto da quella scena iniziale mi interessava relativamente. Del resto, nel corso della lettura, ho potuto constatare come l'intreccio de Il cardellino sia dozzinale come quello di certi thriller da cassetta. Come notavo nel precedente punto, troppe cose in questo romanzo non funzionano. E allora? Qual è il segreto? Semplice da spiegare tanto quanto difficile da realizzare. Ci sono romanzi in cui è bello stare dentro. Nel corso del libro vengono evocati Storia di Genji, Grandi speranze, Franny e Zooey, capolavori che hanno il potere di spalancare finestre su mondi nei quali ciascuno di noi sognerebbe di trasferirsi. Il cardellino è della famiglia. Ecco perché ci piace leggerlo e, ancor più ci piace rileggerlo. Atmosfere, luoghi, personaggi. Pagherei oro per passare un weekend a Las Vegas con Xandra (sono certo che non disdegnerebbe i miei soldi). Donna Tartt è come quegli scenografi di certi kolossal anni 40 che sapevano come farti sognare.

g) Nonostante l'atmosfera fiabesca (molti hanno fatto il nome di Dickens), sul libro incombe una nube luttuosa: una mancanza, un senso di irreparabilità, la consapevolezza agghiacciante che le cose siano andate nel verso sbagliato, un rimpianto, un rabbioso rimpianto. La morte della madre di Theo ha cambiato le cose. Le ha cambiate per sempre. Per dirla con Theo, la morte della madre «ha tracciato una linea di demarcazione tra il Prima e il Dopo». E dire che Theo ha cercato succedanei di ogni sorta: la droga, la bellezza, un piccolo quadro rubato e custodito per anni, una ragazza tanto eccentrica quanto inaccessibile... Nessuna di queste cose è riuscita a colmare il buco. È un peso che il lettore si assume, dal quale stenta a liberarsi, che circonfonde qualsiasi parola del protagonista di una specie di tristezza segreta. Alla quale, alla fine del libro, Donna Tartt, fedele alla sua ispirazione ottocentesca, dedica una lunga divagazione. Un vero e proprio epilogo tolstoiano. Una meraviglia. L'ultimo tocco di classe. È passato un anno dal delitto che Theo ha commesso. Le cose dopotutto si sono sistemate (il finto happy end è un colpo di genio). Nessuno gli ha chiesto conto di ciò che ha fatto, se non la vita. La vita che gli ha regalato un numero intollerabile di sofferenze. Ed è sulla vita, sul suo significato, che Theo si trova a meditare con il tono disincantato del moralista classico. «Il fatto fondamentale dell'esistenza – il nostro vagare in cerca di cibo, di veri amici e di qualunque altra cosa – è una catastrofe. Lasciamo da parte quelle ridicole sciocchezze da Piccola città di cui tutti blaterano sempre: il miracolo di una nascita, la gioia per una semplice fioritura, La Vita è Troppo Bella Per Poterla Comprendere e via dicendo. Per me – e continuerò a ripeterlo ostinatamente finché vivrò, finché cadrò sulla mia nichilistica e ingrata faccia e sarò troppo debole per ripeterlo un'ultima volta: meglio non nascere, che nascere in questa fogna». Ve la sentite di dare torto a Theo? Io no di certo. Meno male che gli uomini, per non annegare in questa fogna, si sono inventati la letteratura. Le illusioni sono importanti.

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