Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2014 alle ore 07:55.

My24

Il Film Mibac ripudia il profitto. D'altronde, nessuno glielo chiede. Il codice a barre incombe minaccioso sulle teste dei personaggi del Capitale umano di Virzì. Ma al profitto si oppone l'arte. E quando Valeria Bruni Tedeschi ripudia la finanza coniugale, riemerge dal passato una perduta vocazione teatrale. Si abbandona alle lusinghe intellettuali di Lo Cascio mentre cala, sulla proverbiale scopata d'interesse culturale, la benedicente ombra di Carmelo Bene proiettato alle pareti. L'unico capitale «umano» possibile è quello ministeriale. Settecentocinquantamila euro, sei David di Donatello, sei Nastri D'Argento.

Perché il Film Mibac si fa coi soldi pubblici ma è trasparente. Prima c'era il finanziamento a pioggia. Oggi c'è il reference system. Punteggio automatico assegnato in base a vari parametri «oggettivi», ovvero David di Donatello e Nastri D'Argento nel curriculum. Più premi, più soldi. L'ecosistema premia, approva e produce in un'instancabile catena di incentivi. Meryl Streep non raggiungerebbe i David e i Nastri di Margherita Buy neanche con le nomination ai prossimi dieci premi Oscar. Rispetto al fondo perduto di qualche anno fa però va molto meglio. Ora facciamo le curve d'incidenza. È il socialismo scientifico applicato alle «terrazze romane»™.

Il Film Mibac sente la nostalgia del passato. «Se la sceneggiatura è brutta, ambientalo negli anni Settanta», dice un antico proverbio ministeriale. Ha cominciato Fazio con i Cugini di campagna, poi a ruota il cinema e la fiction e pare non smettano più. Gli anni Settanta presentano indubbi vantaggi per un Film Mibac. La politica seria, la piazza piena, un noi collettivo, la moto senza casco. Il cinema non ancora vampirizzato dalla tv. Un'«Italia vera», in canottiera con L'Unità sotto il braccio, da opporre all'indifferenza tatuata e depilata degli italiani post-cinematografici di oggi. Erano Anni felici, come li chiama Daniele Luchetti nel suo film. Avendoli vissuti da bambino chiede un contributo di novecentomila euro per raccontarci la storia della sua famiglia metà artistica, metà popolare. Ci regala almeno una scena memorabile. Kim Rossi Stewart, nudo, in trance dentro un happening alla Triennale di Milano che prende a pennellate le modelle, lo sguardo performativo perso tra pubi ricolmi di pelo, mentre irrompe nell'opera sua moglie, Micaela Ramazzoti mamma di Luchetti, che non capisce ma si adegua. Cose che se il Film Mibac non lo ambienti nei favolosi anni Settanta non te le puoi permettere. Lo spiegano bene anche alla recente mostra dell'Istituto Luce nel complesso del Vittoriano a Roma. Quando il visitatore sta per lasciare la stanza che racconta l'Italia degli anni Settanta, un cartello lo avverte: «Presto anche le fiammate giovanili si esauriranno e la neotelevisione imporrà i suoi linguaggi totalitari».

Il Film Mibac si fa coi soldi della televisione di Stato per combattere un'estenuante guerra di trincea contro la tv totalitaria. Una guerra iniziata nel lontano 1985, anno primo dell'era del FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo). Ce lo spiega Valerio Jalongo, regista Mibac del documentario-inchiesta sul cinema italiano, Di me cosa ne sai? All'arrivo delle tv di Berlusconi, il Grande Cinema ha reagito con la creazione del FUS. Però non è bastato. Il documentario poi non trova il tempo di dire che dal 1996 al 2004, durante la gestione veltroniana del FUS, abbiamo speso quasi ottocento milioni di euro, cioè esaurito le casse, e portato nelle sale dei capolavori memorabili che ora non ricordo.

Il Film Mibac fa le denunce. Sabina Guzzanti chiede il finanziamento statale per un film sulla «trattativa» Stato-Mafia e ci regala, oltre che una limpida apologia del conflitto di interessi, un formidabile esempio dell'uso ricattatorio del «contenuto». Perché ammettiamo anche che non sia un bel film. Resta il fatto che è un film «necessario». E su «necessario» crollano tutti. Se lo Stato non mi dà i soldi ha paura della «verità». Vi monto una campagna sul Fatto, faccio firmare gli appelli, chiamo Rodotà. La logica del "contro-il-sistema" in Italia è un business e un ricatto psicologico di dimensioni rilevanti.

Poi c'è la donna Mibac. La donna Mibac è sempre in crisi. Se scrive, ha smesso di scrivere. Se non scrive, porta i figli a scuola. Se non ha figli, non riesce a rimanere incinta. Piange. Raramente lavora, ma se lavora è stronza, magra e nervosa, e allora chiamiamo Isabella Ferrari. Come nel Venditore di medicine, dove recita anche Marco Travaglio, e lei è più spettrale di Matthew McConaughey in Dallas Buyers Club, ma invece di cercare le medicine cerca medici da corrompere. È un Film Mibac di nicchia. Mi portano a vederlo in un'arena all'aperto del Pigneto dove fanno il dibattito col microfono e le sedie di plastica. Siccome è del genere «film italiani che potevano essere puntate di Report», girano i nomi di Elio Petri, Francesco Rosi, la grande stagione del cinema politico, l'inchiesta. «Deve essere stato difficile fare un film del genere nell'Italia di oggi…», domandano al regista. Il regista fa la faccia di uno che vorrebbe dire «...ma guarda, veramente l'Italia di oggi mi ha dato comunque centocinquantamila euro per farlo», però giustamente sta al gioco. Dice che una clinica non ha rilasciato il permesso per le riprese. Ci autorizza tutti a pensare al complotto delle case farmaceutiche, al degrado morale della sanità, al traffico d'organi. Siamo indignati ma non abbiamo paura. Perché il Film Mibac è l'arma più forte. E torniamo tutti a casa tranquilli.

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi