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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2014 alle ore 08:15.

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Quando ai primi di ottobre del 1998 Federico Zeri morì improvvisamente nella sua casa di Mentana, Bruno Racine, allora direttore dell'Accademia di Francia a Villa Medici, mi chiese di organizzare una breve cerimonia per ricordare il nostro grande amico. Federico aveva donato alcune opere d'arte di grande pregio alla Francia, era buon amico di Racine e aveva fondato con me la rivista «Antologia di Belle Arti» che gli sopravvisse fino ad un paio di anni fa.
Trattandosi di un omaggio ad un uomo diverso da tutti non volevo che diventasse un ricordo lacrimoso o accademico. Mi venne così in mente di chiamare Alberto Arbasino e Vittorio Sgarbi che con Zeri aveva avuto prima rapporti idilliaci poi tempestosissimi. Non era una scelta ovvia ma ero certo della stima profonda di Sgarbi per Zeri anche se spesso turbata dai cattivi umori di entrambi. Arbasino invece non è uno storico dell'arte ma ciò non gli ha mai impedito di guardare ogni cosa con i suoi occhi e con la sua testa trattando le espressioni umane, artistiche, letterarie e mondane, come parte di un tutto che va al di là delle singole tecniche e delle varie inflessioni idiomatiche. L'ultimo dei Ritratti italiani di Arbasino, freschi di stampa presso Adelphi, è quello di Federico Zeri. Basta iniziare a leggere: «la melanconia del personaggio veniva di lontano. Come già il grande Mario Praz, il grande Federico era (e teneva a mostrarsi) inguaribilmente geniale, passabilmente sinistro, e solo. Cioè solitario, e unico… Il suo stato normale era l'indignazione».
Quarant'anni prima, nel 1958, avevo conosciuto Zeri che teneva all'Università di Firenze, dove ero scolaro di Roberto Longhi, un corso su un gruppo di misteriosi dipinti che andavano sotto il nome di comodo di Maestro delle Tavole Barberini. Ricordo tempi remotissimi: Zeri parlava ancora con Longhi e non era sempre indignato ma la sua vivacità era tale da apparire quasi morbosa e, come notava Arbasino, malinconica. Questa sua inclinazione non era palese come quella di Dürer ma lo si capiva narcisista, perennemente irrequieto e bisognoso di abbagliare a qualunque prezzo. Voleva essere solo, è vero, in modo che tutti si chiedessero perché voleva esserlo. Comunque alla sua morte non riuscii a far dire ad Arbasino qualcosa sulla scrittura di Zeri. Lo dice adesso: «non aveva mai praticato gli stili fascinosi e incantatori che derivano ancora da Longhi, se non da Berenson. Anzi, con una autocritica impaziente e incontestabile aveva cassato la vocazione letteraria e le tentazioni narrative». Così era e non a caso molte volte Federico mi disse di detestare lo stile di chi scrive col pennino d'oro intinto nell'inchiostro viola. Giuliano Briganti pensava che gli articoli di Federico sembravano bollettini di guerra e manifestavano una certa supponenza: detestava quasi tutti ma non poteva fare a meno di nessuno. Arbasino si chiede perché Zeri non sia riuscito o non abbia voluto scrivere dei libri completi optando per «una sterminata produzione di contributi critici virtuosistici e impareggiabili ma non un grande titolo citatissimo e memorabile come nella bibliografia dei suoi ex-maestri ed ex-colleghi, poi nemici». Zeri fu, tra tutti gli storici dell'arte del Novecento, il più vicino alla genialità seppur non il più intelligente: l'ho già scritto altrove e lo ripeto non per amore del paradosso. Federico non voleva essere come nessuno e il suo nord puntava sempre alla contraddizione, di sé e degli altri. Nella sua autobiografia arriva a dichiarare di aver sbagliato mestiere: la filologia portava all'allontanamento dagli altri e perciò era una fatica egoista e forse inutile: parole che suonano bizzarre in un uomo che voleva vicino a sé solo dei robot. A. A., ben conscio dell'eccezionalità del nostro uomo, lo ritiene una sorta di tesoro nazionale che forse l'Italia non era in grado di capire del tutto. Il suo giudizio dovrebbe commuoverci: «un paese come il nostro ha il dovere di meritarsi uno Zeri».
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Di Giuliano Briganti, di una «vivacità giovanile e amabile sciolta dall'età e dal tempo», Arbasino apprezza la conversazione «ricca, calda e leggera come la sua scrittura» e ne carpisce al volo l'essenza degli straordinari contributi sul manierismo, «una ricerca primaria profondamente rivelatrice sulle astratte inquietudini spirituali dietro la bizzarria delle parvenze e l'eleganza delle invenzioni, e la magia delle metamorfosi decorative». Né tanto meno si fa sfuggire il volume più difficile di Giuliano, quei Pittori dell'immaginario che è il verso neoclassico della preziosissima medaglia del Manierismo. Si riferisce a Füssli, Sergel, Piranesi, ad un «onirismo delirante e depressivo dei visionari notturni», ai cervelli neri ansiosi e un po' sinistri che offrono tante opportunità di scintillare agli allievi di Freud. E a questo punto una sola frase spiega chi era Briganti e dimostra qual era il suo peso: «sovente il suo racconto è stato più affascinante ancora delle opere cui solo la pagina può dar vita».
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Ma se si passa dai due grandi figli al grande maestro della storia dell'arte in Italia, la strada è tutta in salita. A.A. non si cura tanto di occhio e di connaisseurship quanto di lingua e di stile. Longhi, il maestro, fu sempre un impareggiabile conoscitore, forse il solo veramente rispettato (non dico amato né temuto) dall'inventore del mestiere, Bernard Berenson. Conoscitore con l'intuito e anche con un suo calore umano (destinato ai dipinti assai più che agli esseri viventi) e soprattutto con la parola. Il giudizio resta tassativo: «accanto a Gadda, Roberto Longhi rimane il miglior fabbro della prosa italiana del nostro Novecento». Dice bene A. A. ma proprio per questo resta impossibile, come accade con Gadda, tradurlo senza diminuirlo in un'altra lingua – è prosa, quella di Gadda e di Longhi, ma una prosa così profonda, così perfetta, da diventare inafferrabile, indiscutibile come un verso di Mallarmé. Come si fa a dire con altre parole in qualunque lingua quel che è l'azur:

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