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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2014 alle ore 08:15.

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«De l'éternel azur la sereine ironie
accable indolemment comme les fleurs…»
Questa squisita quisquilia è stata ben spiegata da un poeta che traduce un poeta, Guido Ceronetti, nella sua versione di quarantaquattro poemata di Costantino Kavafis. Trasformare la poesia in poesia è una metamorfosi in cui molto deve essere mutato perché tutto resti uguale. Ma torniamo a Gadda, a Longhi e ad A.A.: «il pasticcio, l'imbroglio, il groviglio, costituiscono metafore e strumento insieme dello spasimo gaddiano di cognizione, e dolore. Uno sfrenato godimento semantico dell'aura pittorica sollecita invece lo scintillante amor verbale longhiano ai più mirabolanti esercizi dell'intelligenza stilistica». Capire Longhi e capire Gadda (qualche volta capire Arbasino) per uno straniero resta pressoché impossibile, quasi come districarsi fra i libretti d'opera di Francesco Maria Piave: non si parla della qualità del pensiero ma della scelta dei vocaboli e della costruzione sintattica, che qua deve rispettare la musica, là il suono dei colori o il ritmo sentimentale del microcosmo dialettale.
Per l'esuberanza e la stravaganza verbale, nei Ritratti italiani trova una breve ma inconfondibile silhouette Bruno Barilli: piace ad Arbasino e piaceva a Longhi con quella prosa dipinta con polvere di scarabei iridescenti e code di scorpioni. Non era un critico d'arte ma non resisto a copiare la sua definizione dei quadri di Antonio Mancini: «sono come il pavimento di una piccionaia». È una battutaccia forse ma non la si dimentica perché è vera o almeno verosimile, altrimenti Mancini sarebbe sempre quel che non è quasi mai, un grande pittore.
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Non sono un ammiratore fedele di Cesare Brandi. I suoi primi scritti sulla pittura senese sono i più sicuri ma i molti "viaggi", tirés a quatre epingles, sono più ornamentali che profondi. Va ad Olimpia e non intende le sublimi sculture del Tempio di Zeus ("rozzo scalpello provinciale"); in un'altra occasione considera Antonio Canova uno scultore in cemento armato (infelice Canova, Longhi lo chiama «lo scultore nato morto»). Purtroppo di Brandi dobbiamo ricordare anche quei cicalecci su pensieri astratti e fumose concezioni artistiche, quei dialoghi illeggibili pubblicati da Einaudi. A.A. ricorda come «l'uso di termini alla moda come astanza e attante potevano sollecitare qualche vecchio collega». Questo vecchio collega di cui non si dice il nome era Mario Praz, che sorrise sarcastico (e lo scrisse) su quel che rischiava di diventare, con tanti vocaboli ridicoli, la "stanza del lattante".
Brandi era un uomo simpatico, piuttosto azzimato, con giacche di cashmere molto colorate e pochettes fuori tema e si profumava un po' troppo. Gli si devono alcuni favori alla storia dell'arte italiana ma anche la promozione di un linguaggio professionale oscuro e pretenziosissimo che confonde più che spiegare. Difese Morandi e Burri; scrisse una teoria del restauro ancora in circolazione; lesse Roland Barthes citandolo e i libri sull'Oriente di Paul Morand non sempre citandoli. Il suo concittadino Ranuccio Bianchi Bandinelli gli chiese, in una lettera, di non scrivere tanti libri, quelli che aveva pubblicato fino ad allora riempivano inutilmente un intero scaffale della sua biblioteca. Brandi aveva anche una mente veloce e capiva quand'era l'istante giusto per dire l'opposto di quello che aveva scritto qualche tempo prima. Ci trovammo insieme alla Rai quasi per caso, per un'intervista sul Neoclassicismo a cui partecipavo con Maurizio Fagiolo dell'Arco. Brandi iniziò con un aggettivo aggressivo su Canova ma capì che noi due la pensavamo in altro modo e subito cambiò tono: «bisogna intendere che il linguaggio del marmo è così significante…la materia diventa forma ed essenza e apre ad un'espressione inedita… il contenuto…» Non erano esattamente queste le parole e non ricordo bene dove andava a finire ma la sua capacità di dire molto per non dire nulla era magistrale.
Lo incontravo spesso la sera (doveva abitare dalle mie parti, allora, non lontano da Piazza di Spagna) e si fermava sempre a fare i complimenti a un mio cocker nero che portavo a passeggio prima di rincasare. Il professore, senza forse mai riconoscermi, riconosceva Proust, il mio cane, e regolarmente diceva: «Sono molto rari, codesti cocker neri, lo sa Lei?». Ammirava, se ne andava parlucchiando fra sé e sé e voltandosi indietro due o tre volte, salutando e ammiccando. Con gli anni la sua salute era diventata cagionevole e quando, ormai raramente, lo incontravo mi faceva pena vederlo camminare con tanta difficoltà. Le cose peggiorarono finché un giorno seppi che era stato necessario amputargli una gamba. Zeri aveva sempre odiato Brandi, Argan e la loro ninfa egeria, Palma Bucarelli, per la quale aveva inventato nomignoli devastanti. Anche Zeri apprese subito la notizia e mi chiamò poche ore dopo e con voce triste mi disse: «abbiamo fatto un comitato del quale spero lei farà parte: si è deciso di ordinare a Bulgari un reliquiario d'oro per la tibia di Brandi». Non si pentiva mai come Don Giovanni e non perdonava mai offese vere o presunte.
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Chi dice Longhi dice Anna Banti, sua moglie, prima sua vittima poi sua vittimaria. A.A. ne parla con giusta simpatia: «benché di carattere generoso, era piuttosto altera nei modi e portamenti, perché – nonostante ripetesse volentieri "basta con le sensibleries alla Virginia Woolf" – apparteneva ad una classe di scrittrici assai comprese del proprio lavoro». Non so, se la citazione è esatta, quali siano le sensibleries di Virginia Woolf, uno dei tre o quattro grandi geni del romanzo novecentesco – altro che sensibleries. A.A. parla della Banteuse (come egli stesso la battezzò) solo in quanto scrittrice e direttrice di «Paragone Letteratura». La Banti però aveva un passato come storica dell'arte quando si chiamava Lucia Lopresti: era stata allieva di Longhi (così lo chiamava spesso in pubblico) e i quadri li capiva davvero e non solo da intellettuale. Longhi morì nel 1970 e Donna Lucia continuò a lavorare; ormai ottantenne scrisse un bel libro su Giovanni da San Giovanni che non va dimenticato. Praz intrattenne cum grano salis buone relazioni coi Longhi e scrisse di lei sempre con rispetto, rispetto che si tingeva di strani bagliori quando parlava di Roberto il diavolo. Forse la Banti era più tollerante e sorprendentemente accettava di buon cuore i maliziosi couplets di Arbasino. Ecco qua: «ferma in ascensore Anna Salvatore che manda avanti Anna Banti in cappellino e guanti».

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