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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2014 alle ore 11:14.

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Dismessi i panni del critico sentimentale, indossati quelli di vicepresidente del consiglio del governo Prodi, nel 1998 Veltroni includeva le «sale d'essai» nel suo pacchetto di provvedimenti per lo spettacolo. Un fiume in piena di soldi pubblici che L'Unità presentava come il «decalogo per un grande cinema». I finanziamenti per le «sale di qualità» passavano da tre a sei miliardi. Ma il «decalogo per un grande cinema» non ha il tempismo del film di Tornatore. Un anno dopo chiude il cinema America, una vecchia sala nel cuore di Trastevere.
Non che ci fece caso qualcuno. Nel 1999, l'America era solo uno dei novecentodieci e qualcosa cinema italiani che hanno chiuso dagli anni Novanta a oggi. Fino a quando, a dodici anni dalla chiusura, non prese forma una minaccia all'altezza del tempo dei beni comuni e delle specificità del territorio.
«Vogliono farci un supermercato». Al teatro Valle tutto era iniziato così; una voce buttata lì, creando l'effetto che fa dire «squalo!» quando sei in riva al mare. Al cinema America la distruzione della cultura ha il volto di venti mini appartamenti di lusso con due piani sotterranei di garage ad opera della Progetto Uno Srl, che già dal nome non promette nulla di buono, anzi questi iniziano così e magari il progetto Due sarà una catena di centri commerciali.

Dopo quindici anni in cui ci scorrazzavano sopra i topi, ora scopriamo che dentro al cinema ci sono i preziosi mosaici realizzati da Anna Maria Cesarini Sforza e da suo marito Pietro Cascella negli anni Cinquanta, passaggio indispensabile per la dichiarazione di bene di interesse culturale. La Trastevere coi ristoranti dal finto cielo in cartongesso e i capitelli romani di plastica all'ingresso non ci sta. Il mosaico è un movente perfetto. Come nella sequenza degli scavi per la metropolitana in Roma di Fellini. Gli affreschi custoditi dal sottosuolo che svaniscono di fronte agli ingegneri; il passato travolto dalla violenza devastante della modernità, anche quella non proprio implacabile della metro romana.
Intanto all'America i ragazzi si danno da fare. Risistemano per quanto possono la struttura. Partono le rassegne, i dj-set e «le partite della maGGica col proiettore». «Tra Jarmusch e la Roma dove torna a battere il cuore di Trastevere», titola Repubblica (se sei della Lazio sei fascista o guardi i cinepanettoni). Ma sul cinema America si proiettano anche fantasmi e sbandamenti del giornale di Scalfari all'epoca della Leopolda. «Siamo all'ossimoro dell'eversione benedetta», scrive Francesco Merlo qualche tempo dopo in un articolo in cui attacca gli occupanti che gli vale una seconda fatwa, dopo il famigerato pezzo contro Francesco Totti.

L'occupazione però non entra subito a regime mediatico. Prima siamo ancora occupati col Valle. Una cosa alla volta. Quando finisce la festa, artisti, intellettuali e pezzi di cinema italiano puntano sull'America. Le somiglianze, sia chiaro, finiscono qui. Anche perché al Valle Occupato il supermercato funzionava più o meno come i Protocolli dei Savi di Sion, mentre quelli dei garage non scherzano. Eppure una somiglianza c'è. Pare che le occupazioni rendano meglio nella ZTL che nei quartieri più popolari, seguendo grossomodo la spietata logica del mercato immobiliare romano. Al cinema Maestoso, zona San Giovanni, i quattordici lavoratori della struttura che si barricano dentro e issano lo striscione «Maestoso occupato» se li filano in pochi. Non sono giovani e belli. Non fanno i film di Godard e le partite della Roma. Non c'hanno la linea di t-shirt da indossare sul red carpet. Si battono per non perdere il posto e continuare a proiettare Transformers 4 in 3D. Napolitano non gli scrive una lettera commossa. Scola e Rosi non si vedono. Sorrentino non minaccia di rinunciare alla cittadinanza onoraria di Roma. Neanche uno sceneggiatore col megafono. D'altronde, come scrive uno spettatore recensendo il Maestoso sul TripAdvisor dei cinema romani, «qui è da venirci solo se siete di zona, dentro non c'è manco il bar, giusto una bancarella coi lupini all'esterno».

All'America invece si sta dalla parte giusta delle cose. Il conflitto è netto. Speculatori di là, bene comune di qua. C'è la cittadinanza, il territorio, la difesa della cultura, lo spritz. Se cominci a occuparti del Maestoso poi finisce che devi studiarti i ritardi congeniti della digitalizzazione delle nostre sale, i soldi spesi male per le ristrutturazioni. Finisce che devi aprire il dossier «der Viperetta», l'imperatore romano dei cinema e presidente della Samp, Massimo Ferrero, col soprannome coniato addirittura da Monica Vitti, ma in chiave elogiativa dopo che lui la difese da un'aggressione, o così dicono. Finisce che devi far luce sul suo difficile rapporto coi sindacati e sui finanziamenti di Unicredit. Sulla grande operazione di «riqualificazione delle sale cinematografiche romane», ereditate per così dire dal circuito Cecchi Gori. «Voglio un cinema-champagne: uno entra, gli viene offerto l'aperitivo, guarda il film, beve, mangia qualcosa. L'ho visto a Tokyo, credo possa funzionare anche in Italia, ma serve personale preparato, che sappia parlare l'inglese», dice Ferrero quando gli chiedono delle varie sale non ancora riaperte.
Come nel più classico copione della schizofrenia italiana ci si infila in un vicolo cieco coi cassieri che ci offrono le ostriche in inglese di qua, e le rassegne sul cinema curdo a sottoscrizione di là. Sgomberato nel frattempo l'America con la rassicurazione della tutela culturale, gli occupanti vengono ospitati in un forno accanto dove danno vita al Piccolo cinema America, in comodato d'uso fino a marzo.

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