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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2014 alle ore 11:14.

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Come si fa a non schierarsi con questi ragazzi di vent'anni che vogliono far rivivere il cinema, che c'hanno un progetto. Vatti a leggere il progetto sul sito, mi dicono. Il «progetto a lungo termine» steso al tempo dell'occupazione è lungo dodici pagine in pdf con le figure. In meno di due righe chiunque è in grado di capire cosa vogliono i proprietari della struttura. Ai venti mini appartamenti e due piani di garage interrato di cui sopra si è aggiunta una libreria. La libreria potrebbe confonderci, ma è il solito trucco per aggirare il 50 per cento di vincolo d'uso culturale. Sarebbe comunque «una di quelle grandi catene che non hanno un indirizzo culturale ma commerciale», precisa subita il manifesto. Cioè i libri non solo vogliono venderli, ma pure gudagnarci. Poi c'è quello che vogliono gli occupanti. Ma qui è più lunga. Ci si imbatte in «impulsi delle soggettività che lo attraversano», «discontinuità urbana», «attivazione e condivisione di esperienze», «produzione di comune», «produzione di teoria critica», «consapevolezza dei molteplici rapporti tra saperi, poteri e soggetti», «non vogliamo essere clienti, ma registi», «sottrarsi alla valorizzazione neoliberista dei saperi», «sottrarsi ai ritmi della metropoli». A Trastevere. Che avrà pure tanti problemi, ma di sicuro non quello del ritmo della metropoli. Come tutti, sono certo che abbiano ragione loro però non ho capito come.

Il progetto è intrappolato in questo italiano assembleare mutuato dalle traduzioni di Deleuze & Guattari usati come Battisti e Mogol, in un mondo distopico degli anni Settanta minacciato dal golpe dei bingo. Tra strali lanciati contro i multisala, come i preti e il Pci che se la prendevano coi juke-box, la televisione a colori e l'autostrada del Sole, molti anni prima che diventasse materiale epico per Rai Fiction.
«Non vogliamo entrare nel mercato cinematografico esistente, sogniamo una sala ad offerta libera con profitti vincolati alla realizzazione di arene ed attività gratuite per il territorio, una programmazione fatta di retrospettive, con unicità ed irriproducibilità dell'evento». Irriproducibilità dell'evento. Praticamente, cento passi indietro rispetto alle intuizioni sul cinema del saggio L'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica di Walter Benjamin, che è del 1936. Sia chiaro, non è mica colpa loro. Tutto ciò che li circonda è vecchio, intossicato. Tutto li spinge a guardasi indietro. Educati al terrore del nuovo, al culto delle cose morte, alla latteria che è meglio di Starbucks, alla tombola con nonna che è meglio del bingo, al disprezzo del profitto, a un ossequio della cultura con l'indice ammonitore della santa inquisizione, alla dittatura del contenuto. Vogliono il futuro, ma se li metti nella Silicon Valley dopo due giorni salgono sul tetto di Google con lo striscione per una Silicon Valley antifascista.

Quando si sta dalla parte giusta delle cose, c'è il vantaggio di non doversi mai sottoporre a verifica. Nessuno indica in quel tipo di linguaggio uno dei primi nemici del «futuro». Come diceva qualcuno, «da innocente vorrei un avvocato analitico, ma se fossi colpevole mi prenderei di sicuro un post-strutturalista francese». In nome di parole d'ordine oscure, brandendo la supercazzola delle «soggettività orizzontali», si arriva a posizioni grottesche, come quella contro i multisala. Non è facile argomentare in termini razionali contro la moltiplicazione dell'offerta (che mi permette di scegliere nella stesso cinema tra La trattativa di Sabina Guzzanti e Pongo cane milionario) o l'adeguamento della proiezione agli standard tecnologici, o il fatto di potermi comprare i nachos al formaggio, oltre ai lupini della bancarella. Allora ci vuole il «pensiero critico». Quello che da quarant'anni produce gli oggetti culturali e i modelli di consumo più uniformi e standardizzati, gli automatismi più stanchi e prevedibili. Il resto lo fa l'assenza di una educazione economica, ancora vista come nemica delle humanities e dell'«amore per la cultura». Mentre alzano i forconi contro i multisala, uno dei loro intellettuali di riferimento potrebbe ricordargli com'era diventato il cinema Moderno di piazza Esedra, chiuso nel 1994 per le condizioni igieniche disastrose in cui versava, tra avanzi di siringhe e sperma sulle poltrone coi buchi. Se non era per la Warner, che lo ha rilanciato come multisala del circuito Space Cinema, avremmo perso per sempre il primo cinema stabile aperto a Roma, nel 1907, con tanto di affreschi e stucchi d'epoca che il restauro ha conservato.

Ma i vantaggi di una visione «resistenziale» della cultura ci sono eccome. L'abbraccio tra soggettività e specificità del territorio permette a volte di mettere in piedi un'attività senza pagare utenze del gas, dell'acqua, della luce. Senza mettere a norma gli impianti elettrici e la cucina. Senza pagare le tasse e la Siae. Che con due, tre euro minimo a sottoscrizione e trecento persone a evento più la birra fanno tre, 4mila euro al mese. Soldi orizzontali, condivisi, partecipati. Sottratti alla valorizzazione neoliberista e infilati nelle casseforti gestite dai vertici dell'occupazione. Alla fine è questo che gli insegniamo. Che con la cultura si mangia, specie se non ci paghi tasse e bollette. Mentre il negozio accanto, che solo per aprire ha superato un purgatorio di uffici, permessi e controlli che ti tolgono la voglia di vivere ma poi ti premiano col quarantasette per cento di tasse sull'utile, si becca la multa perché la cappa fumaria non è in asse con la finestra del bagno. Ma come diceva l'assessore alla Cultura Flavia Barca, «le occupazioni vanno aiutate a non smarrire la strada». I commercianti possono anche chiudere.

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