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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2014 alle ore 10:18.
Le nostre campagne elettorali ricordano in modo sempre più inquietante il viaggio a Courmayeur sulla decappottabile di Calboni, quello in cui il vanitoso geometra spara balle così mostruose che, a quota 1.600, Fantozzi è colto da allucinazioni competitive e proclama di essere stato, in gioventù, azzurro di sci. Lo scopo è far colpo sulla signorina Silvani, che in questa allegoria alla buona starebbe per l'elettorato.
Si dirà che non è un problema soltanto italiano, che funziona così un po' dappertutto, ma come sempre è questione di misure. Lo si è visto nella campagna per le europee di maggio: solo in Italia era in azione l'infaticabile macchina lanciapalle del MoVimento 5 Stelle, più frenetica di quelle con cui si allenano i tennisti, ed era fatale che nell'imminenza del voto Renzi fosse colto da allucinazioni competitive. Il guaio, dicono in molti, è che dopo le elezioni non ne è uscito, e che una volta al governo ha continuato a fare l'azzurro di sci, in un crescendo di fanfaronate, grida spagnolesche, promesse messianiche, cronoprogrammi fantascientifici e soprattutto una girandola di annunci.
Ormai i commenti degli editorialisti più scettici – i gufi, per intenderci – hanno per tema ricorrente lo scarto tra questi annunci e i risultati, e a settembre la pagina web della Treccani ha dovuto censire l'ennesimo neologismo del gergo politico-giornalistico italiano: “annuncite”. Vedete bene che, con queste premesse, è piuttosto azzardato tessere un breve elogio della millanteria politica, che rischia di essere inteso come un elogio delle balle in un ambiente che ne è già saturo. Ma quella che qui difendo è una menzogna di tipo molto particolare, che si potrebbe definire “menzogna donchisciottesca”. Dove l'aggettivo conta più del sostantivo.
L'eroe di Cervantes è stato evocato più volte in questi anni per ironizzare sulla temerarietà di Renzi, e lui stesso sembra essersi calato nell'archetipo del cavaliere errante. Forse anche troppo: «Ha una sciabola in mano, Matteo Renzi, e la brandisce muovendosi da un capo all'altro della stanza nel suo ufficio a Palazzo Chigi. Il fido portavoce, Filippo Sensi, a un certo punto, teme che, tra un roteare e l'altro, venga giù un pezzo di lampadario. Guardavo entrambi e pensavo se avevo davanti un novello condottiero o un Don Chisciotte e, soprattutto, in quel lampadario per un attimo ho visto l'Italia e il suo rischio di una caduta fragorosa».
Così Roberto Napoletano, sul Sole 24 ORE, presentava a settembre un Renzi spadaccino. Certo, quella sciabola gliel'aveva regalata due mesi prima la nazionale di scherma (dandogli un buon appiglio per millantare, fra qualche decennio: «Sono stato azzurro di fioretto»), ma l'autoidentificazione con Don Chisciotte viene da più lontano. L'anno prima, ospite al festival Popsophia di Pesaro, alla domanda se si sentisse più affine a Batman o a Don Chisciotte, Renzi aveva risposto senza esitazioni: «Don Chisciotte, anche se mi sarei stufato di perdere».
Le primarie di dicembre erano di là da venire, e Renzi si augurava di diventare «un Don Chisciotte a cui vanno meglio le cose». A dirla tutta, non dava l'impressione di aver letto il libro. Citava con enfasi una frase sulla libertà («Il bene più grande che i cieli abbiano donato all'uomo») molto cara a Comunione e Liberazione che ne fece il titolo di un meeting, per poi aggiungere: «Credo che ciascuno di noi debba munirsi di un po' di spirito donchisciottesco, magari stando attento a distinguere quali sono davvero i mulini a vento e qual è invece l'esercito degli invasori». Il modello, a prima vista, non è dei più raccomandabili per un'impresa politica.
Non sarà un caso se, nel capolavoro di Cervantes, l'unico ad avere l'occasione di esercitare l'arte del comando è il più saggio e concreto Sancho Panza, nominato per burla governatore dell'Isola di Baratteria. Il meglio che resta da fare a Don Chisciotte è istruire il suo scudiero sui modi in cui deve comportarsi nel nuovo incarico, e comporre a suo beneficio un piccolo trattato politico in forma epistolare, pieno di sagge raccomandazioni che suonano ben poco renziane: «Non far tanti decreti, ma se li fai, guarda che sien giusti, e soprattutto che siano osservati ed eseguiti. Perché i decreti che non sono osservati, è lo stesso che se non esistessero; anzi, fanno credere che il principe che ebbe senno ed autorità per emanarli, non abbia poi avuto la forza necessaria per farli rispettare». Attento all'annuncite, insomma.
Ma sono consigli tutti astratti e libreschi, e non valgono certo a riscattare la fama di esemplare inettitudine che accompagna Don Chisciotte, spirito sognante poco versato nell'amministrazione delle cose terrene. Donchisciottismo, quando si parla di politica, è poco meno che un insulto, e come tale viene usato da secoli per stigmatizzare idealisti inconcludenti, rivoluzionari senza divisioni armate, arringatori strepitanti ma innocui che spesso fanno pure un vanto della loro estraneità al potere. Un dizionario di politica lo definisce come «atteggiamento spavaldo e vanaglorioso di chi vanta capacità rivoluzionarie e di lotta, ma è sostanzialmente impotente». Che farsene, allora, della pur generosa allucinazione di Don Chisciotte, che prende mulini a vento per giganti, catini di barbiere per elmi e, in definitiva, fischi per fiaschi?
Tutto sta a intendersi su quale tipo di rapporto questa allucinazione, o menzogna, intrattenga con la realtà. Il filologo Cesare Segre suggeriva di far caso a una formula che Don Chisciotte usa proprio nel capitolo dei mulini a vento: Yo pienso, y es así verdad. Lo penso, dunque è vero. La fede di Don Chisciotte, spiegava Segre, è prima di tutto volontà di credere. La sua pazzia è consapevole, calcolata, qualcuno potrebbe insinuare che è perfino larvatamente cinica. Ai mercanti toledani che gli chiedono le prove della bellezza sovrumana di Dulcinea, la contadinotta che il delirio cavalleresco di Don Chisciotte ha trasfigurato in Dama cortese, il cavaliere risponde: «L'importante è questo, che senza vederla, lo dovete credere».
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