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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2014 alle ore 10:18.

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Un invito all'inganno collettivo e consensuale. Peggio ancora, direte voi. Se Don Chisciotte è un realista mascherato da sognatore che ha deciso di abbindolarsi fino alla follia e che aspira a contagiare gli altri con le sue visioni strampalate, la sua eredità politica non diventa ancor più velenosa? La fede in una menzogna riconosciuta come tale – una fede intrisa di malafede – è stata l'essenza del rapporto dei totalitarismi con la verità, e trova il suo manifesto ispiratore in uno dei libri più sciagurosi del Novecento, le Riflessioni sulla violenza (1908) di Georges Sorel, dove l'uso politico dell'affabulazione mitologica era teorizzato apertamente. Thomas Mann, nel 1950, ancora tramortito dalla grande ubriacatura hitleriana, lo rievocava così: «Come? Leggende, se riconosciute dal mondo, possono diventare verità; miti, fiabe, contraffazioni, falsificazioni, menzogne diventare la base della realtà storica? E questa sarebbe la vera e propria ed essenziale opera della storia? Ma allora è un'odiosa specie di poesia, la poesia della violenza».

A questo si approda, proclamando Yo pienso, y es así verdad? Il rischio esiste, ma esiste pure l'antidoto. Il fatto è che se si vuole prendere a modello Don Chisciotte bisogna prenderlo per intero, perché la sua volontà di illudersi, potenzialmente molto losca, è riscattata dalla nobiltà d'animo, dall'inflessibile dedizione ai princìpi cavallereschi, dalla limpida sprezzatura di hidalgo, che sta appunto per figlio di qualcuno, hijo de algo, gentiluomo. Quello che dobbiamo aver caro è insomma il donchisciottismo liberale, nel senso più pieno che si può dare all'aggettivo, che indica magnanimità («Il liberalismo è la generosità suprema», diceva Ortega y Gasset, peraltro grande interprete del Chisciotte). Tanto più che in Italia la storia del liberalismo è in buona parte storia donchisciottesca, modo aggraziato per dire che ha un duraturo legame con la follia, le cui ultime convulsioni si sono viste con il caso di Oscar Giannino.

Di donchisciottismo fu spesso accusato il Partito d'Azione, che favoleggiava un'Italia troppo moderna e civile, impossibile da estrarre dalla materia prima di un Paese arretrato. Donchisciottesca fu tutta l'impresa politico-giornalistica del Mondo. Che cosa c'è di più cavalleresco di questo incipit di Gaetano Salvemini? «“Prego, chi siete voi?”. Noi siamo una mezza dozzina di pazzi malinconici (o innocenti), ultimi eredi di una stirpe illustre, che si va rapidamente estinguendo; massi erratici, abbandonati nella pianura da un ghiacciaio che si è ritirato sulle alte montagne. È il ghiacciaio che si chiamò “liberalismo”, “democrazia”, “socialismo”». E che cosa di più cervantesiano della pagina troppo citata di Mario Ferrara, che sempre sul Mondo invocava per i liberali uno di quei matti che «cominciano con il farsi ridere dietro dai savii e farsi ascoltare da altri pazzi come loro e, alla fine, si tirano dietro il grande esercito dei savii e ben pensanti»? Il caso di Marco Pannella, in questo, è istruttivo.

Solo un pazzo donchisciottesco poteva vivere per decenni nell'illusione che gli ideali liberali fossero sempre sul punto di ottenere successi plebiscitari, salvo che i media ingannatori lo impedivano, proprio come Don Chisciotte era convinto che fosse un mago a generare i suoi fallimenti: è un incantesimo di Frestone che «ha cangiato questi giganti in mulini a vento, per togliermi la gloria di vincerli». Ma proprio questa singolare follia ha fatto sì che Pannella non mollasse per sessant'anni, in condizioni che avrebbero consigliato la resa; e, quel che più conta, è anche grazie a questa cocciuta volontà di prendere abbagli che ha potuto ottenere le sue vittorie.

Eccolo, infine, il grande arcano: il donchisciottismo paga più del sanchopanzismo. Ma questo ha poco a che vedere con la mitologia compiacente del sognatore coraggioso, del pazzo ispirato, dell'idealista dal cuore puro e altre svenevolezze sentimentali. Ci sono ragioni più prosaiche, e un trattato donchisciottesco sull'arte del governo dovrebbe esporle a una ad una, illustrandole con argute metafore secentiste, massime di autori classici ed esempi tratti dalla storia universale. Chi un giorno volesse scriverlo, a uso di Renzi o di un futuro principe, presti attenzione a queste mie imbeccate. Anzitutto, travisare deliberatamente la realtà è, in alcuni momenti, la forma suprema del realismo politico. Ed è probabile che l'Italia stia vivendo uno di quei momenti. Serve un prolungato periodo di manutenzione straordinaria, ha scritto sul Corriere della Sera Michele Salvati in un ritratto politico di Renzi; le resistenze saranno fortissime e il primo ministro lo sa: «Come poi un politico consapevole della difficoltà del compito che si è addossato riesca ad essere (o a sembrare credibilmente) così ottimista – un aspetto fondamentale della sua immagine pubblica – è problema che sfugge alle mie capacità di comprensione».

Dove non arriva il politologo, arriva d'un balzo il letterato, che in quel «sembrare credibilmente» accostato all'«essere» sente un'eco familiare: Don Chisciotte e la sua pazzia volontaria. Ci sono circostanze in cui le richieste irragionevoli sono le uniche a ottenere ragione, in cui la sola speranza di successo è agire e pensare «come se» gli ostacoli non fossero insormontabili, «come se» un governo, nell'affrontarli, avesse più potere di quanto ha, «come se» l'Italia fosse alle soglie di una palingenesi e non aspettasse altro. La vecchia battuta di Vitaliano Brancati secondo cui, in Sicilia, per essere liberali bisogna essere «almeno comunisti» conteneva, in questo, una profonda verità donchisciottesca, che Leonardo Sciascia proponeva di estendere a tutte le regioni d'Italia. Viste le sconsolanti condizioni di partenza, sono proprio il realismo e il disincanto a suggerire di farsi megalomani, radicali, folli e cavallereschi per raggiungere banalissimi traguardi moderati. Gli osservatori che commisurano annunci e risultati dimenticano una cosa: lo spericolato Renzi ha promesso molto, troppo, e ha ottenuto poco; l'assennatissimo Letta ha promesso poco e non ha ottenuto nulla. Un Sancho Panza vede il nemico all'orizzonte e soccombe ancor prima di sguainare la spada. Un Don Chisciotte sa che, allucinando un campo di battaglia in cui le forze sono disposte a suo vantaggio e contagiando altri con questa sua allucinazione, riuscirà a guadagnare qualche metro, qualche spazio d'azione – e a guadagnarlo nella realtà, dove le percezioni qualcosa pur contano.

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