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25 aprile, le divisioni della Resistenza

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IL SETTANTESIMO ANNIVERSARIO

25 aprile, le divisioni della Resistenza

«Non abbiamo più un popolo, una patria, un bene comune, un comune ideale. Il ricordo della Resistenza non solo è lontano, ma serve di pretesto retorico agli uni e agli altri». Queste parole scriveva il 15 luglio 1950, don Primo Mazzolari in un articolo intitolato «Patria Terra di Nessuno», pubblicato su «Adesso», un «quindicinale d’impegno cristiano» da lui fondato nel gennaio 1949.

Don Mazzolari era parroco a Bozzolo, in provincia di Mantova. Patriota, interventista, antifascista, contrario al Concordato, durante la Repubblica sociale collaborò alla Resistenza e nel febbraio del 1944 fu arrestato. Rilasciato nel luglio successivo, minacciato ancora di arresto, visse in clandestinità fino al 25 aprile 1945. Dopo la liberazione, gli fu riconosciuta la qualifica di partigiano. Con cristiana pietà verso tutte le vittime della guerra civile, si impegnò attivamente per la ricostruzione democratica dell’Italia, propugnando una “rivoluzione cristiana” volta a sanare le ingiustizie sociali. Anticomunista, nelle campagne elettorali don Mazzolari sostenne la Democrazia cristiana affrontando i comunisti in pubblici contraddittori, tanto da guadagnarsi la qualifica di filocomunista, come scrisse al suo vescovo nel gennaio 1949, quando diede vita quindicinale «Adesso», che subì varie censure dall’autorità ecclesiastiche, fino alla chiusura del giornale nel 1951, seguita tre anni dopo dal divieto di predicare fuori della sua parrocchia e di scrivere articoli su questioni sociali.

Don Mazzolari fu uno dei primi a lamentare il rapido dissolversi dello spirito unitario e patriottico della Resistenza, dopo la fine della collaborazione governativa fra i partiti antifascisti, l’inizio della Guerra fredda, la vittoria della Democrazia cristiana nelle elezioni del 1948 e l’adesione dell’Italia alla Nato. Iniziò allora l’aspra contesa fra i partiti antifascisti, ciascuno dei quali rivendicava l’interpretazione autentica della Resistenza, trasfigurandola in un mito secondo i canoni della propria ideologia.

In realtà, lo spirito unitario e patriottico della Resistenza aveva cominciato a mostrare qualche crepa già alla fine del 1945. Il 30 dicembre commentando «l’anno che muore», Pietro Nenni, ministro nel primo governo presieduto da De Gasperi, succeduto al governo Parri il 10 dicembre, scriveva: «spente le luminarie della vittoria, sono ritornati i tempi amari. Qui da noi, il vento gagliardo del Nord si è affievolito e quasi spento. … L’occupazione ha reciso i nervi alla rivoluzione popolare di aprile e ha ridato fiato ai resti del fascismo. Ministeri sono sorti e caduti. Speranze hanno brillato e si sono estinte come meteore. Tutto è ridiventato duro ed incerto».

Il giorno prima, al V congresso del Partito comunista italiano, Togliatti, anch’egli ministro, aveva reclamato che «senza l’azione organizzata e senza la lotta politica chiaroveggente del nostro partito, non si sarebbero potuti raggiungere quei risultati più o meno grandi, ma in determinati momenti molto importanti, che si sono potuti ottenere nella ricostruzione di un’unità nazionale e spirituale del popolo italiano dopo il crollo del fascismo, nella ricostruzione di un regime democratico di libertà e di lavoro». Tuttavia, il segretario comunista aveva subito aggiunto: nella lotta «non siamo stati soli, né pretendiamo nessun merito esclusivo. Abbiamo avuto accanto a noi operai e lavoratori socialisti, lavoratori e intellettuali del Partito d’azione, del partito democratico cristiano e di altre correnti democratiche e liberali». L’unità fra i comunisti e gli altri partiti democratici era stata «tra le cause principali della nostra vittoria», e questa unità, auspicò Togliatti, «non si deve oggi spezzare, anzi deve durare e consolidarsi, dove diventare una delle fondamenta della nuova Italia che insieme vogliamo costruire».

Quasi a confortare l’auspicio togliattiano, cinque mesi dopo, nel primo anniversario del 25 aprile, dichiarato giorno di festa nazionale dal governo De Gasperi, i partiti della Resistenza furono uniti nella celebrazione. Era stato il comunista Giorgio Amendola, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, sollecitato dall’Associazione nazionale dei partigiani italiani, a proporre il 25 aprile come giornata dedicata «alla solenne commemorazione dei sacrifici e degli eroismi sostenuti dal popolo italiano durante la lotta contro il nazifascismo».

Ma con l’inizio della Guerra Fredda, il 25 aprile 1947 lo spirito unitario e patriottico della Resistenza era già fortemente lacerato dalle divergenze sulla politica estera, che provocarono nel maggio l’esclusione di comunisti e socialisti dal quarto governo De Gasperi. L’anno successivo, preceduta dalla trionfale vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile, l’anniversario non fu celebrato dagli antifascisti uniti. Il ministro dell’Interno Mario Scelba, democristiano, vietò le manifestazioni pubbliche per la ricorrenza. E mentre il giornale della Democrazia cristiana invitava a commemorare «nell’intimo dei nostri cuori», a Milano il comunista Luigi Longo, uno dei capi dell’insurrezione del 25 aprile, denunciava la «campagna di denigrazione e di menzogne che attaccando gli artefici della liberazione della Patria intende attaccare le conquiste stesse di questa liberazione».

La contesa sulla trasfigurazione mitica della Resistenza attraverso miti antagonisti si inasprì rapidamente. E alla vigilia del 25 aprile 1949, don Mazzolari commentava: «Tutto si rifà: strade, ponti, fabbriche. Noi no. Anche se continuiamo a crescere di numero, anche se parliamo la stessa lingua degli uomini del nostro risorgimento, si fa fatica a dire che siamo ritornati italiani. ... La resistenza continua ma in nome della parte contro la Patria, perpetuando e aggravando la frattura … Se la Resistenza per colpa dei partiti non avesse perduta la sua iniziale nobiltà, se avesse conservato intatto il patrimonio spirituale dei suoi Morti, se invece di scavare una trincea avesse costruito un ponte, avrebbe salvato l’Italia».

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