Cultura

Mai stanchi di Londra

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le guide verdi del touring

Mai stanchi di Londra

Central line, ore 8, stazione di Queensway, treno direzione Epping, estrema periferia nord est di Londra. In un indefinibile vagone di testa s'incrociano un inglese, una coppia di portoghesi, una di cinesi, un italiano (io), una francese. Le lingue si sovrappongono, i segni delle culture di appartenenza, che siano un libro o un giornale, si mescolano, dando forma all'istantanea di Londra: in pochi metri quadrati va in scena il mondo, come in nessun altra città al mondo. Si fa presto a dire melting pot – ormai suona tanto d'antan – si fa presto a evocare la “globalizzazione”, impolverato passepartout buono per ogni chiacchiera, ma se si deve parlare di Londra, città-infinita, da quel vagone del metro bisogna incominciare.

O per gli esegeti di Old Britannia, da Samuel Johnson che due secoli fa scolpì un epitaffio immortale. «Chi è stanco di Londra, è stanco della vita», disse e vale la pena di ragionarci, nonostante l'implicita retorica che caracolla fra nazionalismo e campanile.
Da quel vagone bisogna incominciare perché la Londra di oggi è il prodotto di un fenomeno culturale unico, nella metropoli più totale del pianeta, capace com'è di esercitare attrazione dall'Estremo Oriente, all'Africa, dall'Asia centrale, alla Russia, dal Sudamerica fino alle terre del Commonwealth. Attraente per giovani all'arrembaggio del futuro e, meno giovani, affermati e benestanti. La lingua resta il motore più potente, ma il traino dell'inglese va coniugato con l'essere capitale di mezzo, un po' europea e un po' atlantica, con radici nei resti dell'Impero e liaison a Mosca e Hong Kong.

La storia di una grande Età passata si rimodella sull'esigenza di oggi. Così, quando l'eurozona entra in crisi, Londra offre un approdo tranquillo; quando il rublo precipita, la sterlina si rivela destinazione sicura; quando un satrapo s'inalbera, il rifugiato continua a trovare un destino di certezze. Le cronache del Mediterraneo di queste ore potrebbero smentirci, ma questa è stata la storia fino ad ora, accelerata dagli eventi del credit crunch. I segni sono ovunque. Nelle statistiche delle immobiliari che mettono in gara russi, arabi e cinesi sul percorso di una speculazione immobiliare che, per i pessimisti, emula la seicentesca bolla sui tulipani olandesi.

Nei numeri delle costruzioni, sbancate dai malesi che firmano, fra l'altro, la trasformazione in complesso residenziale di Battersea Power Station, icona dell'architettura industriale resa celebra dalla copertina di Animals dei Pink Floyd.
La crescita della popolazione - arrivano duemila italiani al mese, siamo terza nazione dopo francesi e polacchi – al ritmo dell' 1% l'anno, costringe una città orizzontale, prossima ai 9 milioni di abitanti, a riscoprire la dimensione verticale, facendosi, di nuovo, palestra per architetti impegnati nella City distretto finanziario di ieri e in Canary Wharf, distretto finanziario di oggi.

Producono creature in concorrenza, grattacieli ribattezzati Grattugia, Walkie Talkie, Shard – il Frammento di Renzo Piano - fino al più maturo Gherkin, il cetriolino voluto da Norman Foster. Belli e tutti da visitare perché hanno riscritto la skyline della capitale, nonostante le resistenze neoclassiche del principe Carlo che denunciò alcuni manufatti, troppo lontani dal gusto reale, liquidandoli con una battuta: «orrende escrescenze sul volto di un amico tanto amato».
In realtà anche quelle teoriche brutture contribuiscono all'eterno movimento di Londra. Una città-stato del tutto aliena al resto del Regno se misurata con qualsiasi indicatore, ma soprattutto al vaglio di quello dell'innovazione.

Fra gli orrori dell'East End sono esplosi, anni fa, Shoreditch e il Silicon Roundabout, polo new-tech che da lì parte per concentrarsi in un network di relazioni esteso a tutto il sud-est del Paese, creando numeri anche superiori alla Silicon Valley californiana. Nelle vie rese celebri da Jack lo Squartatore – Whitechapel – continua a fiorire la Londra delle arti più d'avanguardia. A Clerkenwell, dove Charles Dickens s'ispirava per raccontare le miserie dei diseredati d'epoca vittoriana, crescono i design-studios. Sono i volti di un'industria, quella della creatività, che ormai rappresenta il 10% dell'economia nazionale e un giorno potrà, forse, ridare equilibrio a allo strapotere della finanza che negli anni Ottanta prese il sopravvento sulla manifattura.

Ultima voce in ordine di tempo da ascrivere al capitolo creative industry è l'istruzione superiore che oggi, solo a Londra, genera 2,3 miliardi di sterline di gettito garantito esclusivamente da studenti stranieri. La cultura produce ricchezza, se ben amministrata.
Eterno movimento quello di Londra, dicevamo, potente abbastanza per affossare la cucina francese, un'antica abitudine, e spalancare le porte alla gastronomia del mondo, italiana in testa. A Londra si mangia benissimo, soprattutto perché – con tutto il rispetto - non si mangia inglese.

Ed eccoci di nuovo nel vagone della metropolitana, a quell'incrocio di caotica creatività che nasce dall'incontro di culture estranee, cinesi e francesi, italiani e portoghesi uniti in un viaggio di pochi minuti una mattina qualunque. Così è ogni giorno e in ogni luogo, un match di idee che sospinge verso terreni inesplorati. Avamposti terrorizzanti agli occhi della Little England che resiste alla storia, quella, per intenderci, cara agli eurofobi di Nigel Farage. Inghilterra appunto, non Londra motore di ricchezza senza uguali, capace com'è di produrre da sola un terzo o quasi dell'economia di un Regno spaccato. Londra veleggia nel mondo, il resto s'ostina a galleggiare fra la Manica e l'Atlantico.

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