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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2015 alle ore 08:15.

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L’idea, oggi così ovvia, che gli strumenti siano un aiuto dei sensi è una conquista relativamente recente nella storia dell’umanità. Risale a circa quattrocento anni fa, all’epoca della cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo, quando iniziò ad affermarsi un modo di “guardare” la natura del tutto nuovo.

Il canone percettivo, fondato sul primato degli organi di senso, si rivelò improvvisamente inadeguato, tanto da sconvolgere la rassicurante immagine che l’uomo aveva dell’universo e di se stesso. E a mostrare questa inadeguatezza furono appunto gli strumenti inventati in quel periodo, soprattutto il telescopio e il microscopio, che per la prima volta consentivano di trascendere i limiti imposti dalla natura ai sensi e alla conoscenza umana.

Tra resistenze e polemiche, a farsi strada fu l’idea che il mondo visibile non coincideva più con quello catturato dallo sguardo naturale, a occhio nudo, e che bisognava pertanto ripensare l’azione stessa del vedere. Una svolta cruciale insomma, che capovolgeva lo statuto dell’osservatore e inaugurava una stagione senza precedenti.

È di questa «rivoluzione dello sguardo» che Laura J. Snyder racconta nel suo libro, facendo immergere il lettore nell’Olanda del secolo d’oro, dove sembra che gli strumenti ottici abbiano esercitato un’attrazione irresistibile e contagiosa. Al punto che se gli scienziati, per scrutare la natura, non potevano più rinunciare al telescopio e al microscopio, anche gli artisti consideravano ormai indispensabile servirsi di lenti, specchi e camere oscure, sia per creare immagini straordinariamente dettagliate di fiori e insetti, sia per ottenere scene con effetti realistici di luce, ombra e colore.

Più che altrove, dunque, nella Repubblica olandese del XVII secolo il nuovo modo indagare la natura trasformò non solo la scienza, ma anche l’arte. E nessun luogo, secondo Laura Snyder, ne offre uno spaccato migliore di Delft. Due protagonisti assoluti di tale cambiamento furono infatti il più grande pittore e il più grande filosofo naturale di questa piccola città: Johannes Vermeer e Antoni van Leeuwenhoek.

Il loro rapporto costituisce da sempre un problema seducente, anzi uno splendido mistero. Poiché entrambi condividevano lo stesso interesse per gli effetti visivi delle lenti, si è ipotizzato che si conoscessero bene e si scambiassero informazioni sull’ottica o su altri argomenti analoghi. Tanto più poi che essi sembrano uniti da un’intricata ragnatela di fili: nacquero tutti e due nel 1632, addirittura nella stessa settimana; da adulti vissero e lavorarono nei pressi della Piazza grande del mercato di Delft; ebbero amici in comune; e quando nel 1675 Vermeer morì, Leeuwenhoek fu nominato suo esecutore testamentario. Purtroppo, però, non esiste alcuna testimonianza che dimostri una loro effettiva frequentazione.

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