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Questo articolo è stato pubblicato il 14 giugno 2015 alle ore 08:15.

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Alcuni storici dell’arte hanno suggerito che lo studioso raffigurato in due famosi dipinti di Vermeer – L’astronomo (1668) e Il geografo (1668-69 ca.) – sia Leeuwenhoek, e che possa essere stato proprio lui a commissionarli al pittore. Anche in questo caso, però, non c’è alcuna prova documentaria. E non aiuta di certo il confronto con i ritratti noti di Leeuwenhoek che, essendo di epoca successiva, risultano poco rassomiglianti con quelli eseguiti da Vermeer.

L’impossibilità di stabilire se Vermeer e Leeuwenhoek si conoscessero è un fatto ammesso dalla stessa Laura Snyder, che lo considera perfino secondario, convinta com’è che «il vero fascino della storia delle loro vite e delle loro opere consista nel ruolo centrale che entrambi ebbero nell’affermazione dell’idea moderna di visione». È in questa idea che, a suo avviso, va ricercato l’autentico legame tra i due geni di Delft.

Mercante di tessuti e piccolo funzionario pubblico, Leeuwenhoek iniziò a far uso di lenti per motivi professionali: per esaminare le trame delle stoffe. Non aveva ricevuto alcuna istruzione universitaria, non conosceva il latino, e non aveva particolari cognizioni di storia naturale o di filosofia. Fu in tutto e per tutto un autodidatta, che nel tempo libero imparò a molare, lucidare e montare lenti con notevoli capacità di ingrandimento. Quasi un passatempo, che finì però per trasformarsi in un secondo lavoro e in un’insaziabile curiosità per ogni aspetto della natura. Così, questo semplice uomo di commercio, nell’estate del 1674, poteva annunciare alla Royal Society qualcosa che aveva dell’incredibile: analizzando al microscopio l’acqua di un laghetto vicino a Delft, era riuscito a vedere una miriade di piccolissimi organismi viventi, ossia i protozoi. Era la prima di una serie di straordinarie scoperte, tra cui quella dei batteri e degli spermatozoi.

Anche se altri avevano già ottenuto importanti risultati con il microscopio, Leeuwenhoek finì per superarli tutti. Le sue osservazioni rivelavano una dimensione della vita sconosciuta e non percepibile ai sensi, un nuovo mondo di cui nessuno prima aveva immaginato l’esistenza: il mondo microscopico. E con la pubblicazione delle sue ricerche sulle «Philosophical Transactions», la rivista ufficiale della Royal Society, Leeuwenhoek divenne uno scienziato di fama internazionale. Studiosi, dignitari di corte e perfino sovrani, come Pietro il Grande di Russia, si recavano a Delft per assistere allo stupefacente spettacolo di minuscole creature viventi che Leewenhoek preparava per loro.

Vermeer, invece, un successo del genere non lo assaporò nemmeno. L’artista che ha creato alcune delle opere più ammirate e celebrate di tutti i tempi – dalla Veduta di Delft alla Fanciulla con perla all’orecchio, dalla Merlettaia all’Allegoria della pittura – rischiò quasi di essere cancellato dagli annali della storia dell’arte. Certo, durante la maggior parte della sua carriera si conquistò una buona fama a Delft ed era conosciuto anche al di fuori della sua città. Ma dipingeva con estrema lentezza, la sua produzione fu piuttosto esigua, e non diventò mai una figura di spicco nel mercato dell’arte. Quando nel 1672, in seguito alla guerra con la Francia, l’Olanda precipitò in una drammatica crisi economica, Vermeer ne fu letteralmente inghiottito. Alla sua morte, lasciò la moglie, dieci figli minorenni e un’ingente quantità di debiti. I suoi dipinti andarono dispersi e in molti casi attribuiti a pittori più noti di lui. La rivalutazione critica della sua opera iniziò soltanto a Settecento inoltrato.

Laura Snyder ripercorre ogni tappa di questa tragica vicenda, ma la sua attenzione si rivolge soprattutto a una delle questioni più complesse e dibattute tra gli studiosi: il ruolo della camera oscura nella pittura di Vermeer. Questo dispositivo, che nel XVII secolo era diventato ormai di ampio uso, si basa su un principio alquanto semplice: la luce che passa attraverso un piccolo foro ed entra in una stanza immersa nel buio proietta sulla parete opposta un’immagine capovolta di qualsiasi oggetto o scena si trovi all’esterno. L’immagine viene poi messa a fuoco con una lente convessa collocata in prossimità del foro e può, con l’aiuto di uno specchio, essere raddrizzata. Poiché però la camera oscura non lascia tracce visibili nei dipinti, è sempre difficile stabilirne l’impiego da parte di un artista.

Nel caso di Vermeer, dopo l’importante studio di Philip Steadman (Vermeer’s Camera, Oxford University Press, 2001), che ha dimostrato come, nella composizione di almeno dieci quadri, il pittore si sia avvalso di una camera oscura, la discussione poggia ora su un terreno più solido. Laura Snyder è molto critica – e un po’ ingenerosa – nei confronti di questo libro. Ma anche lei, pur sottolineando che «Vermeer non era schiavo dell’ottica della camera oscura», è certa che l’artista di Delft ne facesse uso e riuscisse così, come ripete più volte, a vedere «cose nuove», cose non visibili a occhio nudo. Sfugge tuttavia quali siano queste “cose” che soltanto la camera oscura rende visibili.

Ovviamente, la camera oscura, l’abbiamo detto, mostra in scala oggetti e fenomeni che ci circondano, ma non come quelli veramente invisibili, in quanto troppo lontani o troppo piccoli, rivelati dal telescopio e dal microscopio. Le suggestive descrizioni che fa Laura Snyder di alcuni effetti di colore, luce e ombra presenti nei dipinti di Vermeer, non bastano quindi a spiegare quale fosse, in concreto, il supplemento visivo che la camera oscura offriva all’artista. Il ricorso a questo dispositivo scaturiva infatti dalla sua capacità di trasformare scene tridimensionali in immagini bidimensionali, che potevano essere studiate in dettaglio e perfino ricalcate. Ma ciò che Vermeer apprezzava di più era che la camera oscura produceva immagini con un sensibile aumento del tono e del colore, permettendo di vedere, o di vedere meglio rispetto alla scena originale, le sfumature di luce e ombra.

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