Cultura

Usare le parole dell’inconscio

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LA POESIA SECONDO ME

Usare le parole dell’inconscio

Nelle scorse puntate abbiamo accennato alla questione «che cosa sia la poesia». Torno brevemente sull’argomento per chi non le avesse lette, prendendo la questione da un altro punto di vista, quello della parola.

Usiamo la parola in modo pratico e in modo emozionale. Il modo filosofico o saggistico è, in fondo, un modo pratico. Abbiamo una parola che si esprime attraverso la pratica della vita e invece una parola che nasce dalle nostre sensazioni, dalle nostre emozioni, o, per meglio dire, dal nostro sentire. In realtà anche il pensiero può entrare in quest’ultimo modo di usare la parola. Chiamiamo infatti sentimento il sentire nella mente, un modo non razionalistico e ragionativo, bensì il pensare attraverso un’emozione.

La poesia interessa tutti gli uomini: Ottavio Paz diceva «La poesia non è solo una tecnica artistica, è una visione generale delle cose». L’approccio alla realtà di tipo pratico o razionalistico (che è sempre un modo pratico) non impegna tutto di noi. Se parlo per chiedere il pane dal panettiere non gusto o anticipo il sapore del pane. Non entrano in gioco emozioni e sensazioni. Così, se scriviamo un saggio, pensiamo, analizziamo, creiamo confronti fra cose, ma la nostra parte emotiva non è in gioco. Nella poesia è invece tutto il nostro essere che viene impegnato, totalmente: è un modo di avvicinare il mondo del tutto particolare.

Quando oggi si dice che la poesia è il linguaggio necessario agli uomini (lo sostengono molti filosofi, necessario più della filosofia), si intende che l’uomo odierno ha bisogno di entrare nuovamente in un rapporto totale con ciò che lo circonda per riconquistare un’esperienza e poi rifletterci sopra per trarne delle conclusioni nuove rispetto all’universo, alle cose, agli altri uomini.

In questa puntata parleremo della parola emozionale. Quando esprimiamo qualcosa attraverso il modo emozionale della parola questa si carica non solo dell’emozione che noi mettiamo in atto nell’esperienza, ma viene anche messa in rapporto ad altre parole. Ci sono delle parole che esprimono in sé un’emozione. Una volta in via Manzoni, a Milano, mi raccontava un mio amico, degli sterratori mettevano a posto i binari del tram: scavavano una buca, tiravano fuori il granito e poi, dentro la buca, rinforzavano e lucidavano i binari del tram. Era una serata estiva, passeggiava con altri, e sentì uno che stava sollevando un grosso masso di granito esclamare: «Diu, che giass!...». Il mio amico faceva notare come a nessuno di noi sarebbe mai venuto in mente di dire in piena estate, con il caldo, «Che ghiaccio!...» per esprimere il peso. Ma, in effetti, la grande fatica e il grande calore provocano una sensazione molto simile a quella del gelo. Questo popolano aveva espresso con una sola parola, una grande emozione. Probabilmente non ne era cosciente. È raro che una parola sola possa dare tale pienezza di emozioni. Diciamo, allora, che c’è un ordine nelle parole messe una vicino all’altra. Quel che si chiama una proposizione, in grammatica, e un verso, in poesia. Ecco che allora la parola non ha più solo la valenza della parola in sé, ma anche degli effetti che derivano dallo stare vicino all’altra. Ci sono mutamenti di senso e significato proprio a seconda dell’accostamento. Mentre a scuola insegnano a mettere prima il soggetto, poi il verbo e infine il predicato, è ovvio che in poesia questo non accade. Posso lasciare sottinteso il predicato. In poesia c’è una legge: la rispondenza necessaria tra le parole e l’emozione che voglio esprimere, quando questa corrispondenza c’è non occorre aggiungere altro, né spiegare.

Ci sono parole pesanti e parole leggere; per esempio, per definire una cosa pesante si usano certe consonanti e certe vocali: “piombo” è una parola che ha già un suono vicino al peso del piombo, perché c’è una p e una b, e soprattutto il dittongo “io” che prende una sonorità particolare con la “m”, che allarga la dittongazione fino a farla cadere nella “b”, come un sasso: “piombo”. Quando si scrive sotto emozione non ci si ferma certo a pensare a queste cose, ma in altri momenti, quelli in cui magari non viene la parola adatta a esprimere leggerezza o pesantezza dell’emozione che vogliamo dire, possiamo starci attenti, o inventare, come fanno i bambini, che non hanno il possesso di tutte le parole per esprimere quello che sentono. Ci sono poesie in cui non si finisce mai di correggere, altre che come sono dette, sono.

Abbiamo già accennato al fatto che le parole sono fatte di suoni. Se metto le parole in un certo ordine non emergono solo i significati che siamo abituati ad attribuire alle parole, ma anche i significati impliciti nella sonorità. I suoni sono vibrazioni, comunicano emozioni proprio in quanto suoni. Poiché la resa sonora di un verso è connessa all’ordine in cui le parole sono messe, non si può modificare l’ordine senza modificare anche il significato. La resa sonora è una valenza capitale della poesia.

Faccio un esempio. Leopardi scrive: «Dolce e chiara è la notte e senza vento». Si possono trarre significati di vario tipo; ad esempio si può dedurre: se è dolce, vuol dire che sarà primavera; non può essere estate perché c’è troppo caldo, né inverno poiché fa freddo. Sarà primavera, maggio o aprile, massimo giugno. E poi è chiara, e quindi vuol dire che c’è la luna; e siccome è senza vento significherà che è calma, una notte primaverile pacata. Leggendo con più attenzione ci accorgiamo che Leopardi dice «Dolce e chiara è la notte» poi c’è come una pausa e aggiunge «e senza vento». Come mai c’è una pausa? Quel che viene dopo la pausa («senza vento») rivela di fronte alla notte un vuoto che mette sgomento. Lì c’è lo sgomento del poeta di fronte alla notte. Ecco che «Dolce e chiara è la notte e senza vento» non si esaurisce più in quei significati che abbiamo dato, ma c’è dell’altro: il rapporto intimo, preciso, del poeta rispetto alla notte e al vuoto, al senso di smarrimento che la notte gli dà. Si può poi notare che questo verso inizia e termina con il suono “o”, che la parola notte è esattamente al centro del verso, che siamo di fronte a vocali piane “e”, “a” , orizzontali, e con un’unica elevazione in quella “i” di “chiara” che è l’unico momento di chiarezza che lui vede, e le “o” sono di chiusura e apertura, e sono “o” chiuse, foneticamente intendo. È un verso che comprime tutta la sonorità verso l’interno, canalizzandola verso quella sonorità centrale che è la parola “notte”. Questo in poesia è normale.

È il nostro essere il nostro punto di riferimento, sia che noi lo si conosca che non lo si conosca, e in poesia è l’essere che determina la profondità dell’emozione. Il lasciar crescere dentro la parola (se abbiamo la forza di rimanere dentro l’emozione) fa emergere la parola già secondo un ordine, perché l’interiorità ha un ordine. Come dice Jung, nella profondità di noi, nel Sé, c’è un ordine che si rivela, ad esempio, nei sogni. Sembra che non abbiano senso, perché non hanno la logica del nostro “io” abituale, ma quella dell’essere. Allora, leggere i sogni consente di capire che ogni cosa è in relazione con le altre, che emergono dei significati non in base alla razionalità cui siamo abituati ma in base alla razionalità dell’essere che è dentro noi, e che nel sogno si esprime. Analogamente accade in poesia: tanto più noi abbiamo la forza e la capacità di entrare nel nostro essere profondo, tanto più saremo in grado di dire con forza, con profondità, con verità, la “nostra” verità - naturalmente.

La cosa più importante è mettersi in relazione con se stessi, abbandonarsi a se stessi mentre si scrive e lasciar fare al nostro essere. Possiamo intervenire anche con la mente, ma bisogna essere dei gran lavoratori della parola per arrivare in quei momenti di gran stanchezza in cui ti fermi, pensi, perché magari non ti viene la parola e allora aspetti, ti incanti, o salti, lasci un buco. Mi diceva Dante Isella che nei manoscritti di Carlo Porta ci sono a volte dei vuoti, dei piccoli spazi bianchi, e una parola scritta sopra o di fianco. Evidentemente quando non gli veniva la parola, Porta continuava a scrivere e poi ci tornava su, tanto sapeva che ci andava quella parola, con quel significato e quei suoni accostati agli altri.

Il grande lavoro, infatti, si fa dopo. Quando si è in quello stato non tutto esce dal nostro essere, ma dalla cultura, dalla mente, dall’ambizione, dal desiderio di apparire intelligenti. L’uso di certe parole intellettualistiche viene, ad esempio, dalla pretesa di far sapere a chi leggerà - intellettuali, accademici, critici letterari - che una certa intellettualità del tempo la si è digerita. Ma questa non è la poesia, è la zavorra della poesia. Come fu il neoclassico, per esempio. Ci sono degli scritti di Leopardi in cui fa un grande sfoggio di cultura e di conoscenze intellettuali. Quando scrive da Firenze alla sorella Paolina dice infatti: «Dopo tanto cincischiare con le parole sono stato finalmente preso dall’allegrezza della poesia». Bellissima questa espressione di Leopardi! «L’allegrezza della poesia». Perché dice così? Perché se noi ci abbandoniamo a noi stessi, accade che anche i dolori, le angosce, vengono «contemplate», cioè guardate come dal di fuori.

Pubblichiamo la terza puntata di una serie di riflessioni sulla poesia e sullo scrivere poesia di Franco Loi, uno dei nostri maggiori poeti viventi, storico collaboratore della «Domenica» del Sole 24 Ore. La seconda puntata è uscita il 23 agosto, la prima puntata il 9 agosto.

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