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Addio a Dario Fo, maestro del grammelot e Nobel per la Letteratura

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il ricordo

Addio a Dario Fo, maestro del grammelot e Nobel per la Letteratura

A dispetto di quanto ne pensava lui stesso – che si affannava a rivendicare la continuità ideologica del suo percorso – credo che Dario Fo abbia vissuto una serie di vite creative diverse. C'è stata la prima fase, probabilmente la più fresca e prorompente, degli esordi all'inizio degli anni Cinquanta, coi graffianti sketch del Poer nano, presentati sotto l'ala di Franco Parenti, e poi coi successi del Dito nell'occhio e di Sani da legare, le due riviste satiriche realizzate dall'acclamata compagnia formata con lo stesso Parenti e Giustino Durano.

C'è stata poi la seconda fase, quella dell'ascesa commerciale nelle sale borghesi, a fianco della moglie Franca Rame. Dopo le farse di Comica finale e Ladri, manichini e donne nude arrivano le grandi commedie che per un decennio lo imporranno come autore sulla cresta dell'onda, Gli arcangeli non giocano a flipper, del '59, Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri (60), Chi ruba un piede è fortunato in amore (61), Isabella tre caravelle e un cacciaballe (63), Settimo ruba un po' meno (64), La colpa è sempre del diavolo (65), La signora è da buttare (67), in cui sfoggia una sempre più consumata abilità compositiva e brillantezza di scrittura.

Culmine assoluto e punto di svolta di questo processo di crescita è stata l'edizione di Canzonissima del '62, che Fo e la Rame – all'apice della fama - sono chiamati a condurre, ma in cui toccheranno con mano i limiti della libertà consentita loro dal sistema: il tentativo di portare nella Rai di allora certe prese di posizione, certi umori caustici che in teatro venivano tranquillamente accettati si risolve in proteste, interventi censori e alla fine nell'allontanamento dei due dall'emittente pubblica.

Il terzo periodo – decisivo, pieno di spunti di rottura – è stato quello dell'uscita dai circuiti “ufficiali” per puntare a nuove forme di teatro politico nelle Case del Popolo, nelle Camere del Lavoro, a stretto contatto con un pubblico di operai e contadini: precedute e anticipate dalle incursioni nel terreno del folk revival, con le varie versioni di Ci ragiono e canto, ecco le veementi stagioni del collettivo Nuova Scena, con gli spettacoli-parata, gli spettacoli agit-prop, i pupazzi e pupazzoni.

Tra assemblee infuocate, scissioni, conflitti col Pci anche questa esperienza comunque si consuma, e cede il passo a nuovi tipi di aggregazioni, i circoli La Comune, la Palazzina Liberty, le forme di creazione strettamente legate all'urgenza dell'attualità, Morte accidentale di un anarchico, il Fanfani rapito: ma forse, più delle singole proposte, incide in questo caso la scelta di rivolgersi a platee affini, con cui si condividono idee e aspirazioni.

Infine, dopo l'assegnazione del Nobel, nel '97, sono venuti questi ultimi anni in cui Dario ha cercato di vestire i panni – a lui non appropriati – del maître a penser, intervenendo su qualunque argomento a proposito e a sproposito, sfornando testi dal taglio sempre più prolisso e didascalico. Queste diverse ispirazioni hanno evidenti radici comuni: c'è, alla base, lo stesso sguardo acremente grottesco, ci sono i meccanismi comici ereditati dai copioni dei Rame, la dinastia di scavalcamontagne da cui Franca discendeva, e c'è quel gusto per un teatro di matrice artigianale, molto immediato, molto giocato sull'improvvisazione, sull'invenzione estemporanea, un teatro in qualche modo pre-moderno, pre-registico.

Ma, ovviamente, tra la satira amenamente sorridente di Chi ruba un piede è fortunato in amore e l'impellente bisogno di affrontare i temi delle stragi di stato e dei servizi deviati nell'Italia dei primi anni Settanta c'è un abisso. Più che negli esiti in sé, la distanza siderale fra le due linee si coglie negli intenti: se l'obiettivo, in precedenza, era quello di divertire, ora si puntava a fornire dal palco una vera e propria controinformazione.

Attore geniale, portato soprattutto a una folgorante vena mimico-gestuale, capace di racchiudere in una smorfia, in un guizzo clownesco il giudizio su un'epoca, Dario ha messo a punto soprattutto testi destinati a porre in luce la sua fisicità sghemba, dinoccolata, così come le stralunate doti interpretative della Rame: restano memorabili le figure del buffo nanerottolo nel Fanfani rapito, o del Matto che in Morte accidentale di un anarchico si finge un alto magistrato facendo risaltare tutte le assurde contraddizioni di agenti e funzionari.

Se in Mistero buffo – probabilmente il suo capolavoro – raggiungeva un mirabile equilibrio tra la densità della scrittura e la corposità della parola detta, sospinta verso l'astrazione del grammelot, in altri testi stentava a sottrarsi a una certa ridondanza. Il suo merito principale, il suo tratto originale è stato il proposito di catturare in diretta, di sera in sera, l'evolversi della cronaca quotidiana, le inchieste, i processi, assorbendoli nell'azione. Questa ricerca di un teatro perennemente contaminato dalla realtà ha mutato la natura stessa del linguaggio scenico. Ma l'assetto in divenire, l'assenza di una forma definita ne ha anche dilatato a dismisura la materia, rendendola spesso macchinosa.

Chi può dire se, fuori da certi schemi ideologici, avrebbe potuto usare meglio il suo talento? Sicuramente la vocazione all'estremismo, più o meno profondamente sentita, gli ha dato forti stimoli creativi, ma non sempre lo ha aiutato a trovare una propria misura personale. Esuberante e approssimativo, amava dissertare anche su argomenti di cui era poco informato: senza remore o esitazioni, ciò che non sapeva lo inventava alla sua maniera. Su Ruzante e Goldoni, ad esempio, aveva sostenuto fandonie colossali.

Dava l'impressione di un uomo che stesse invecchiando senza essere riuscito ad approdare alla saggezza dell'età: ciò che di lui mi ha sempre sconcertato, per dirla francamente, è stato quel suo bisogno di aizzare, di eccitare gli animi, quel costante rifiuto di trovare una parola di mediazione. Ovunque ci fosse una situazione di tensione, interveniva a fomentare lo scontro. Ma Dario era questo, prendere o lasciare. Non si poteva chiedergli di essere diverso.

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