Squadra che vince non si cambia. Una massima applicata al calcio che spesso vale anche per il cinema. E che deve aver mosso anche Paolo Genovese nella realizzazione di The Place, film di chiusura della dodicesima Festa del cinema di Roma. Reduce dal successo al botteghino e ai David di Donatello di Perfetti sconosciuti, il 51enne regista romano sceglie di replicare lo schema teatrale che ne aveva fatto la sua fortuna. Facendo muovere tutti i suoi personaggi all'interno di un unico luogo, per di più chiuso (in quel caso un appartamento in questo un diner che da il titolo all'opera) e affidando esclusivamente ai volti e ai dialoghi la dinamicità e lo sviluppo della storia. Per andare ancora di più sul sicuro sceglie un terzetto di attori (Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher e Marco Giallini) già utilizzati nel lungometraggio precedente e parte da un soggetto non originale: la serie TV The Booth and the end. Ma proprio questa scelta si rivela forse la meno azzeccata perché grande e piccolo schermo (a volte piccolissimo se pensiamo al consumo di prodotti audiovisivi che oggi avviene su tablet e smartphone) continuano a essere due mezzi diversi. Che spesso parlano a pubblici diversi e utilizzano ancora linguaggi, tempi e stili non del tutto sovrapponibili.
Un plot più adatto alla serialità del piccolo
Se l'idea di fondo può apparire intrigante (Che cosa saresti disposto fare per realizzare un sogno o un desiderio?) il modo in cui Genovese la sviluppa lascia più di una perplessità. Va bene puntare sullo stato di grazia di Mastandrea che nella fase matura della carriera riesce a passare senza sbavature da registri comici a quelli drammatici, e viceversa. Ma assistere per 105 minuti a una processione di persone qualunque, con desideri a volte banali (diventare bella, andare a letto con la pin up da calendario, ritrovare il bottino di una rapina), che si recano da lui (l'uomo senza nome protagonista del film ), rivelando il sogno e ricevendo in cambio il compito da eseguire per raggiungerlo, risulta alla fine faticoso. Non tanto per lo sguardo perché spostando di volta in volta il punto di vista le inquadrature della stessa location risultano movimentate lo stesso, quanto per l'empatia che le vicende dovrebbero trasferire. Senza però riuscirci.
Un romanzo fin troppo morale
Vedere - magari, diciamo sentire visto che le azioni solo solo narrate - un'anziana ed elegante signora (Giulia Lazzarini, una spanna sul resto del cast) essere pronta a posizionare una bomba in cambio della guarigione del marito dall'Alzheimer oppure un bancario quarantenne (un Vinicio Marchioni un po' troppo attonito) uccidere una bambina di sei anni per vedere regredire il cancro che ha colpito suo figlio sono comportamenti sufficientemente disumani per tentare di farne un romanzo morale dal sicuro impatto emotivo. Che lascia a desiderare però dal punto di vista della messa in scena perché, se articolate lungo l'arco di una serie TV, così tante storie possono anche colpire il bersaglio. Mentre averle concentrate in un unico intreccio, forzando peraltro alcuni incroci, non produce lo sesto effetto. A maggior ragione se si inanellano, come fa Genovese, una serie di sottofinali, con tanto di dissolvenza a nero, che rendono ancora più stucchevole il finale vero e proprio. Chiaramente consolatorio come tanto piace al cinema italiano.
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