In quanti posti al mondo un musicista ignoto con il volto coperto, sei video su YouTube ma zero dischi pubblicati riesce a riunire 20mila persone per un concerto annunciato su Facebook soltanto sei giorni prima? Pochi, pochissimi presumibilmente. Ma tra questi posti c’è senza dubbio Napoli: la prima esibizione del misterioso rapper Liberato datata 9 maggio, come la hit che un anno fa lo lanciò, ha attratto sul lungomare fan e curiosi, a coronamento di un «caso» sul quale opinione pubblica e social hanno a lungo discusso. Tutti a chiedersi chi sia Liberato, ma forse i misteri da svelare stanno da un’altra parte.
Ce ne vengono in mente almeno tre. Uno: qual è il pubblico di Liberato? Due: perché sta maledettamente bene in piedi sugli assi traballanti della musica ai tempi dello streaming? Tre: la sua fu vera gloria?
Premessa: come funzionano le feste a Napoli
Partiamo da una premessa. Chi mercoledì sera alla rotonda Diaz c’era, ha assistito a un happening che a qualcuno potrà pure apparire musicalmente debole, ma rappresenta a suo modo qualcosa di unico. La capienza dell’area delimitata era di seimila persone ma almeno altri diecimila spettatori, in molti anche arrivati da fuori regione, hanno assistito al concerto dall’esterno. Napoli funziona così: se inviti qualcuno a una festa, inviti il mondo. Il fenomeno si manifesta attorno alle 20.30, raggiunge il palco su una barca come fosse la statua del santo a mare, affiancato da sei «sosia» dall’identica felpa con la scritta «Liberato» (occhio al product placement con Converse), avvolto da fumi azzurri. Saluta in lingua («Ma comme c... sit’ bell’»), quindi si esibisce senza rivelarsi, offrendosi al suo pubblico per poco più di trenta minuti con tutto il proprio repertorio: da Gaiola portafortuna fino a Te vojo bene assaje. Ci scappa pure l’omaggio a Pino Daniele con un accenno di Quanno chiove. E non è casuale.
Primo mistero: il pubblico
Dunque, qual è il pubblico di Liberato? Per provare a rispondere forse bisogna guardare proprio nella direzione di ciò che rappresentava Pino Daniele agli esordi. A Napoli era un fenomeno popolare che attraversava le classi sociali, univa idealmente i baretti di Chiaia, i salotti del Vomero e i vicoli della Sanità. Alla faccia di reddito e livello di studio, «Pinotto» era capace di arrivare a tutte le anime cittadine. Al di fuori di Napoli, invece, i fan dell’«Uomo in blues» si dividevano essenzialmente in due categorie: da un lato il pubblico colto della musica indipendente, lo stesso che a Roma e a Milano si incuriosiva per gli esperimenti di Roberto De Simone o la World Music, dall’altro i «napoletani della diaspora» che, nelle appucundrie di Zio Pino, trovavano un pezzo della propria identità. Liberato, uno che musicalmente con Daniele neanche ci azzecca, almeno per ora sembra avere una penetrazione analoga: a Napoli è del popolo, fuori Napoli è delle elite.
Secondo mistero: l’efficiacia del «prodotto»
Perché Liberato funziona? Quando, a proposito di un artista, ci si pone una domanda del genere, la risposta non è mai unica. Nel caso dell’autore di Intostreet, chiunque o qualunque cosa sia, tocca tirare in ballo un argomento scivoloso: la percezione di Napoli e della napoletanità nell’immaginario collettivo di questo Paese. Più o meno tutti quanti tendiamo a credere a chi ci racconta la verità per come già la conosciamo. Se arriva qualcuno e ci racconta Napoli, il suo racconto deve in qualche modo appartenere alla Napoli che già è «nostra». Trovereste credibile una band tedesca che suona funk? E un quartetto bluegrass greco? Ciò non vuol dire che in Grecia o Germania non possano esistere musicisti bravi in quei generi. Molto più semplicemente siamo meno «diposti» ad accoglierne la proposta e, di conseguenza, a decretarne il successo.
Il gioco intorno a Napoli (e ai suoi cliché)
Liberato viene da Napoli e gioca con gli stereotipi della napoletanità. Le melodie dei suoi brani attingono alla grande tradizione della musica melodica e neomelodica cittadina, le basi sono eredità della scuola tech house partenopea. Il mix tra i due elementi non è nuovissimo (c’è una vasta letteratura fatta di Almamegretta e 24 Grana). Anche l’anonimato è un «genere» che in città gode di una certa fortuna, dal caso Elena Ferrante ai «diffidati liberi» dello Stadio San Paolo e fermiamoci qua. Poi ci sono i video di Francesco Lettieri che accompagnano i brani di Liberato, rappresentando una efficace declinazione dell’immaginario legato alla città, proponendoci una Napoli che «già conosciamo» e per questo siamo meglio disposti ad accogliere. Tra motorini che sfrecciano rapaci e scorci di paradiso terrestre vista mare, volti travisati, degrado urbano assortito e ragazzine di buona famiglia che s’innamorano di ragazzacci dei quartieri. Tutto molto bello, tutto in fondo già visto. Con buona pace per le band cittadine - magari anche brave - che suoneranno funk o bluegrass.
Terzo mistero: orizzonti di gloria
Ultima questione: fu vera gloria quella di Liberato? O piuttosto: lo sarà? Per ora quello che si è visto rappresenta un piccolo miracolo di social media marketing applicato a musica e arti visive. Nell’epoca dello streaming già tanta roba. Domani chissà. Domani chissà che Liberato, con cognizione di causa ancora maggiore, non dovrà cantarci Tu t’e scurdat ’e me.
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