Dell'impero coloniale italiano, che finì con la Seconda guerra mondiale, si parla poco e di esso circolano ormai notizie approssimative. Eppure è storia che si dovrebbe conoscere, anche a grandi linee, per meglio comprendere il nostro rapporto con l'Africa. Si dice, e si ripete, che gli italiani furono più buoni e comprensivi di francesi, belgi e soprattutto inglesi in quel continente. Sarà. Tuttavia è bene non dimenticarsi che le colonie vanno sempre accostate alle guerre, e le guerre non sono delle passeggiate.
Arrigo Petacco, scomparso il 3 aprile scorso, non era uno storico accademico, ma sapeva raccontare le vicende da vero giornalista e da sceneggiatore di programmi televisivi. Tra i suoi libri ritorna “Faccetta nera. L'illusione coloniale italiana” (Utet, pp. 256, euro 19).
Indirizzate a un pubblico non specializzato, comunque desideroso di conoscere tali vicende, queste pagine offrono la storia delle nostre avventure in Africa Orientale. Un impero che durò alcuni decenni e che già ai suoi inizi fece digrignare i denti a inglesi e francesi quando, con la battaglia di Adua del 1896, gli etiopi vinsero le truppe italiane: il fatto dimostrava che era possibile sconfiggere gli europei.
L'opera di Petacco, anche se non esaustiva, è bene informata. Tralascia i primi tentativi che risalgono addirittura a Cavour, nel 1861, di creare una piccola colonia commerciale sulla costa della Nigeria e nell'isola portoghese del Príncipe; tali pagine, dedicate alla parte orientale, prendono avvio dagli anni di Adua e dall'interesse che i governi italiani di sinistra, in particolare di Francesco Crispi, e poi di Mussolini ebbero per un impero accanto al mar Rosso. Si concludono con le sconfitte della Seconda guerra mondiale. Nel 1943 l'Italia perdette definitivamente tutti i suoi possedimenti africani.
Quel che avvince nel libro di Petacco sono anche alcune storie legate a personaggi a volte pittoreschi. Ecco la moglie del negus Menelik (il nostro primo vincitore), la regina Taitù, che era riuscita a seppellire sette mariti precedenti anche con l'aiuto del veleno e poi si liberò, con lo stesso metodo, di diversi amanti occasionali. Oppure troverete gli italiani che praticarono il “madamato”: già dall'Ottocento era consentito ai nostri di unirsi con donne etiopi in una specie di matrimonio civile. Le medesime che erano poi abbandonate al rientro in patria dei soldati.
O infine scoprirete tra i molti un articolo di Paolo Monelli, apparso sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino il 13 giugno 1936, dal significativo titolo “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. In esso l'autore si scagliava contro la promiscuità sessuale che si era creata e i meticci che ne sortivano. Con termini decisi: “Noi dobbiamo popolare l'impero d'intatta gente nostra, non disseminare intorno malinconici bastardi. Non è ammissibile per un popolo sano, forte, antico, la promiscuità con i barbari vinti”.
C'è anche altro. È una storia lunga. Conviene conoscerla.
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