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Dalla gavetta alla mensa aziendale: breve storia della pausa pranzo

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Dalla gavetta alla mensa aziendale: breve storia della pausa pranzo



Charlie Chaplin sperimenta la macchina della pausa pranzo in «Tempi Moderni» (1936)
Charlie Chaplin sperimenta la macchina della pausa pranzo in «Tempi Moderni» (1936)

Mangiare è il gesto più elementare. Primo cartello: «Alla Girola siamo stanchi di mangiare nella gavetta». Secondo cartello: «Alla Girola mensa per i capi e 21 cani». La Girola è una impresa costruttrice di dighe. Nella fotografia in bianco e nero, scattata durante uno sciopero del 1973, il cartello è sorretto dai manifestanti. Da Memoriale, romanzo del 1962 di Paolo Volponi: «Io sono il capo reparto e mi chiamo Michele Grosset. Chi lavora alle frese è un operaio qualificato; chi lavora bene. Oggi alle due vedremo chi sa lavorare, gli altri dovranno impararlo da me. Adesso è mezzogiorno, la fabbrica smette. Alle due tornate qui, cinque minuti prima. Se volete, potere andare a mangiare alla mensa».

Cibarsi è un atto politico. A spiegarlo non sono, come accadeva più di mezzo secolo fa, i saggi pubblicati sui «Quaderni Piacentini» o su «Comunità». Lo racconta la mostra multimediale Pausa pranzo. Cibo, industria, lavoro nel ’900, ospitata alla Fondazione Dalmine fino al 21 dicembre. Nutrirsi – e nutrire – è un atto politico nel senso greco del termine. Nel senso della definizione della fisionomia della comunità, della formazione del diritto di cittadinanza reale e della costruzione dell’identità di chi vi appartiene. Nel caso specifico, la comunità dell’Occidente industriale e l’operaio.

Odoardo Fontanella, «Il pranzo dell'operaio», 1950 ca., Fondazione ISEC

La fabbrica del Novecento è stata – anche - un luogo sporco e buio, oppressivo e duro. Ma, con una delle feconde contraddizioni della modernità, è stata pure un luogo di emancipazione e di liberazione, di progresso e di conquiste. La radice fordista e taylorista si è ibridata con la radice fabiana e socialista in Inghilterra, con il nerbo conservatore e tecno-borghese in Germania e con la doppia nervatura organicistico-statalista e paternalistico-utopistica in Italia. Da questa ibridazione, e dalle sue differenti sfumature e declinazioni, è derivata nel secolo scorso la propensione dell’impresa ad aggiungere tasselli al mosaico economicistico-organizzativo, modificandolo profondamente e facendo della fabbrica qualcosa di differente rispetto al suo minimale profilo ottocentesco. Una evoluzione tutt’altro che lineare e armonica, ma fatta anche di impulsi violenti provocati dalle tre correnti esterne che, dalla realtà storica del tempo, hanno superato i cancelli aziendali inondando la vita dell’impresa: la sinistra di derivazione marxista, l’organicismo fascista e il cattolicesimo sociale.

Bruno Stefani per Studio Boggeri, Mensa aziendale Dalmine, 1937, Fondazione Dalmine

La mostra, che è curata dalla Fondazione Isec e dalla Fondazione Dalmine con la collaborazione dell’Istituto Luce Cinecittà e il contributo della Fondazione Cariplo, è realizzata con l’utilizzo di diversi piani storico-analitici e narrativo-interpretativi: fotografie e oggetti, filmati storici e documenti di archivio raccontano che cosa succedeva all’operaio quando interrompeva il lavoro per, appunto, nutrirsi. I materiali riguardano, fra le altre, aziende come la Dalmine (oggi Tenaris) e la Ansaldo, la Fiat e la Olivetti, la Pirelli e la Montecatini, la Falck e il Cotonificio Crespi, la Marzotto e la Breda, la Barilla e la Zanussi, la Piaggio e la Montedison, la Sit Siemens e l'Alfa Romeo.

All’inizio gli operai tirano fuori dalla borsa il cibo portato da casa e mangiano a fianco dei macchinari. Poi, l’azienda mette a loro disposizione locali chiusi, prossimi ma non interni all’area della produzione, dove l’operaio consuma quel cibo freddo. Il terzo tempo è la predisposizione di ambienti rudemente confortevoli ed elementarmente attrezzati in cui gli operai possano scaldare i loro pasti, portati da casa. Il quarto tempo è rappresentato dalla creazione di vere e proprie mense – quelle reclamate appunto dai manifestanti della Girola nella fotografia in bianco e nero – in cui anche gli operai possano nutrirsi con il primo e il secondo, l’acqua e il vino forniti direttamente dall’azienda. Il passaggio socialmente più radicale nel percorso dell’operaio-cittadino dell’Occidente industriale è la fine della distinzione delle mense per gli operai e delle mense per gli impiegati, una distinzione di censo e di classe superata con le mense comuni alla fine degli anni Settanta.

Tutto questo è un percorso che dura un secolo. Ed è qualcosa di discontinuo e di non lineare, a seconda dalla cultura personale degli imprenditori nel nostro capitalismo privato e a seconda della capacità dei dirigenti del nostro capitalismo pubblico di fare diventare prassi aziendale le culture – politiche, in particolare cattoliche e socialiste – del loro tempo.

Roberto Zabban, Mensa aziendale della Siemens, Santa Maria Capua Vetere, 1962, Centro per la cultura d'impresa

La foto più antica raccolta dai curatori della mostra è del 1890. Al porto di Genova il cibo viene trasportato con i gozzi agli operai dei cantieri navali della Ansaldo. I primi sostanziosi nuclei fotografici sono degli anni Trenta. La maggioranza delle immagini riguarda l’Italia che, dal Boom Economico, arriva a lambire gli anni Ottanta, quando la fabbrica – e con essa l’operaio – inizia a perdere centralità. Molte delle foto esposte alla Fondazione Dalmine sono scattate da anonimi. Molte sono firmate, fra gli altri, da Uliano Lucas (alla Zanussi), Ugo Mulas (alla Montedison) e Bruno Stefani (alla Dalmine).

Le foto sono soltanto una parte dell’excursus visivo allestito alla Fondazione Dalmine. Perché la costruzione progressiva del cibarsi in azienda per tutti non è soltanto una scelta calata dall’alto o favorita dalle pressioni dal basso. È anche un pezzo del processo industriale delle imprese. Basti pensare ai documenti dei Laboratori Centrali Dalmine che, con la relazione 44/18 del 30 maggio 1944, analizzano i «grassi prelevati alla mensa aziendale» e «gli aspetti dei campioni e i caratteri organolettici», al pari delle relazioni sulla composizione dell’acciaio di una colata.

All’interno della costruzione dell’identità di impresa, il tema della mensa compare in due specifici filoni: l’architettura e i film aziendali. Fra le architetture, non c’è soltanto la mensa progettata a Ivrea per la Olivetti di Adriano Olivetti da Ignazio Gardella. Ci sono anche, a Milano, i lavori di Giò Ponti nella sede della Montecatini in Via Turati, la mensa per impiegati di Giulio Minoletti per la Pirelli alla Bicocca e quella di Gigiotto Zanini per la Carlo Erba di Via Imbonati.

Nei film aziendali - la particolare forma di corporate image che si fa corporate identity ora con stile elementare ora con stile più raffinato - compare anche il cibo: succede nel caso dell’Ansaldo e della Fiat, della Marzotto e della Olivetti. Tutte impegnate, con diverse impostazioni, a costruire una serie di servizi – dalle colonie alle case per i dipendenti – di cui la mensa è l’esempio più umile e misconosciuto ma, per la dimensione intima e profonda del mangiare, il più “politico” e perfino il più umano.

Italo Calvino, nel racconto dei primi anni Cinquanta La collana della regina, descrive così i due operai Pietro e Tommaso, una amicizia scossa dall’idea del matrimonio fra i loro figli: «A Tommaso, al vedere lì Pietro pasciuto, spensierato – tale almeno gli pareva – mentre lui mandava giù forchettate quasi impalpabili di cavolfiore bollito, venne una tale rabbia che il piatto d’alluminio prese a tremare sullo zinco del tavolo come se ci fossero gli spiriti. Pietro scrollò le spalle e andò via. Ormai anche gli ultimi operai lasciavano in fretta la mensa, e Tommaso, con le labbra unte attaccate a una bottiglietta di gazosa piena di vino corse via anche lui».

Pausa pranzo. Cibo, industria, lavoro nel ‘900
Dalmine, Fondazione Dalmine
Fino al 21 dicembre.
Visite guidate (su prenotazione) inviando mail a segreteria@fondazionedalmine.org o telefonando
al 035.5603418

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