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Rai, se la «voce del padrone» va contro i principi della Costituzione

La legge sul «dopo di noi» fu tra le più apprezzate della scorsa legislatura, per l’attenzione alla cura delle persone più fragili. La Rai, creatura anch’essa fragile e oggetto di voraci appetiti, non pare abbia avuto la medesima tutela. Forse l’allora maggioranza non immaginava che vi potesse essere un «dopo di noi».

Fatto è che la legge di riforma del servizio pubblico del 2015 alla sua prima prova ha consentito il ripetersi di antiche spartizioni e, soprattutto, ha consegnato ai nuovi governanti il controllo di un formidabile strumento di orientamento dell’opinione pubblica.

È accaduto infatti che, dopo le recenti nomine, nel C.d.A. Rai quattro consiglieri su sette siano riconducibili alla maggioranza. Di più: la legge ha consentito al governo di individuare, nelle segrete stanze, l’amministratore delegato, vero e proprio capo-azienda, che sostituisce il vecchio direttore generale con ben maggiori poteri e autonomia.

Sia chiaro, la legge non imponeva che la Rai finisse nelle mani del governo: la competenza poteva far premio sull’appartenenza politica. Resta quindi la responsabilità dei “nuovi potenti” per l’ennesima sottomissione della Rai alla maggioranza e per la preannunciata “rivoluzione” di direttori di reti e testate.

Addirittura, dove la normativa poneva qualche garanzia al pluralismo, il governo sta procedendo a un duro braccio di ferro con la commissione di vigilanza per imporre la sua volontà. Infatti, la legge prevede che il presidente del C.d.A. debba essere nominato dal consiglio tra i suoi membri e che la nomina divenga efficace con il voto favorevole dei due terzi della vigilanza, quindi con il concorso delle opposizioni.

È accaduto invece che sia stato l’esecutivo a indicare Marcello Foa come presidente e sia stato lo stesso esecutivo a reagire al voto della vigilanza che ha bocciato tale nomina, determinando un conflitto che rischia di paralizzare l’azienda. E tutto ciò nonostante il Presidente Rai abbia oggi un ruolo assai minore rispetto al passato.

Vi è però anche una responsabilità di chi questa legge ha voluto, specie confrontando quanto accadeva fuori dai confini nazionali, ove vi erano segnali di rinascita di un’idea di servizio pubblico lontano dal governo.

Vanno in questa direzione la riforma britannica del 2016, attenta a mantenere l’indipendenza della BBC, ma anche la legge francese del 2013 o quella spagnola del 2017, ispirate proprio dalle forze riformiste, che hanno sottratto al governo la nomina dei vertici aziendali. Al contrario, la deriva autoritaria in corso in altre parti d’Europa si sta realizzando anche rendendo i media statali la «voce del padrone».

Che fare? Prendere atto che nulla può cambiare e attendere il naturale ciclo delle stagioni e con esso l’alternanza tra una Rai sovranista e una europeista, ma sempre filo-governativa? Auspicare la fine della televisione pubblica, per evitare una deriva polacca o ungherese?

Da ingenui, confidiamo sempre nell’azione parlamentare; più realisticamente, potrebbe rivelarsi decisivo portare all’esame della Corte costituzionale i meccanismi di nomina del C.d.A. e soprattutto dell’amministratore delegato.

Sin dagli anni settanta, la Corte ha fatto discendere dai principi del pluralismo e dell’indipendenza del servizio pubblico radiotelevisivo la regola che gli organi direttivi della Rai non possano essere espressione, esclusiva o preponderante, del potere esecutivo. Nonostante ciò, l’Italia è l’unico tra i grandi paesi europei ad avere il “capo azienda” nominato direttamente dal Governo e la maggioranza del C.d.A. a esso riconducibile.

La violazione dei principi costituzionali pare dunque patente; semmai è più difficile chiamare la Corte costituzionale a pronunciarsi. Ma se nel caso Foa il governo e il C.d.A. dovessero insistere nella loro posizione, ciò potrebbe provocare un conflitto tra poteri e, in questa sede, la Corte potrebbe sindacare le regole sulla designazione dei vertici e aprire la via a una Rai meno succube di potenti vecchi e nuovi.

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