Ha un sapore politico l’inizio della 75esima edizione del festival di Venezia. Prima ancora delle reazioni al film di Alessio Cremonini, “Sulla mia pelle”, nella sezione Orizzonti, sulla vicenda di Stefano Cucchi, arriva il dibattito a distanza tra il padrino del festival, Michele Riondino, e il vicepremier Matteo Salvini.
Dopo le esternazioni di Riondino, accompagnato da Asia Argento, che aveva dichiarato di non sentirsi rappresentato da Salvini, è arrivato il messaggio da parte del ministro dell’Interno con un tweet: «Invece lo incontrerei volentieri, sono curioso e testardo, nella speranza di riportarlo su retta via...».
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Pronta anche la risposta del Governo, attraverso la sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni, che ha invitato Riondino a tacere e a non presentarsi all’apertura
del festival. Salvini e il presidente della regione Veneto, LucaZaia hanno inoltre ricordato all’attore che il suo cachet è pagato con fondi pubblici.
L’ultima (ma non sarà l’ultima) nota politica è stata invece sollevata dal presidente di giuria Guillermo Del Toro che ha sottolineato la scarsa presenza femminile tra le fila dei registi. «C’è un vero problema a livello culturale che va
risolto, ci sono molte voci che non vengono ascoltate e devono
esserlo» ha commentato.
Sarà forse Damien Chazelle con il suo “First man” a trascinare il tutto su un piano squisitamente cinematografico. Il regista premio Oscar americano porta sullo schermo la storia del primo sbarco dell’uomo sulla luna, avvenuto nel 1969, calcando il racconto soprattutto
sulla figura dell’astronauta Neil Armstrong, il primo a mettere piede sul suolo lunare. La sceneggiatura, scritta da Josh Singer e basata sul libro di James R. Hansen, si concentra sugli anni che vanno dal 1961 al 1969, sullo sfondo della guerra Fredda con l’Unione Sovietica, che si estrinsecava
anche nella competizione spaziale.
Il metro di Chazelle non è quello dell’orgoglio nazionale ma piuttosto quello dell’antieroismo e della lotta psicofisica dell’uomo
con i propri le proprie paure e fantasmi, come aveva fatto con il bellissimo “Whiplash” del 2014 in cui un batterista si misurava
con i suoi limiti umani e di musicista. Se là il giovane Andrew Neiman (Miles Teller) si confrontava con il maestro Terence
Fletcher (J. K. Simmons), qui Neil Armstrong, interpretato da un impenetrabile Ryan Gosling - già protagonista di “La la land”, premio Oscar nel 2016 -, è sottoposto a prove psicologiche e corporali sovrumane.
Armstrong non viene presentato dall’inizio come il candidato ideale di una impresa che cambierà la storia dell’umanità. La macchina da presa di Chazelle lo segue come se inciampasse in maniera inevitabile nel suo destino. Così anche la Nasa non viene vista nella sua potenza, ma piuttosto come una istituzione in itinere, molto fallace per il pesante dispendio di vite umane e di denaro pubblico. Chazelle non tace infatti le proteste della gente contro le missioni sbagliate fino a quella dell’Apollo 11, ma ricorda nello stesso tempo anche i discorsi di orgoglio nazionale di Jfk proprio sulla possibilità di progresso e di futuro.
Non è solo l’ingegnere e l’astronauta in primo piano in “First man”. Forse lo è di più il padre che ha perso la piccola figlia a causa di un tumore incurabile e che trova in quel dolore la forza per reagire e avere successo in un’impresa fino allora considerata impossibile. Ampi sono gli squarci sulla sua vita personale, sulla sua difficoltà nell’ accettare i lutti, sul suo rapporto, mai banale, con la moglie Janet (Claire Foy). Potenti sono le sequenze - soprattutto la prima - in cui lo spettatore è parte integrante delle spedizioni con le incredibili turbolenze, le cadute libere e gli avvitamenti delle navicelle che compensano i momenti del film in cui il regista insiste un po’ troppo sul senso di incomunicabilità che paralizza Armstrong. Il tutto però assume un senso quando si arriva al 20 luglio 1969.
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