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Banksy e l’arte di provocare: non ci importa chi è, ma…

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ritratto di uno sconosciuto

Banksy e l’arte di provocare: non ci importa chi è, ma quello che fa

Banksy è il nome di un fenomeno che alimenta le fantasie del mondo dell’arte da almeno quindici anni. Non sappiamo chi sia e se dietro le sue opere ci sia solo lui o un gruppo. A cercarlo ha provato una squadra anticrimine, oltre a Scotland Yard e migliaia di fan. Non sembra più nemmeno così importante smascherare la sua identità, perché ciò che veicola è diventato più importante di chi ne è dietro. Banksy non è un’artista ma un provocatore. La sua è una satira che usa i canali dell’arte per arrivare al pubblico. Guerre, banche, sorveglianza, immigrazione, falso benessere, consumo irresponsabile, sono i suoi soggetti.

C’era una volta a Bristol
La sua carriera inizia a Bristol, nel 1998, a un festival di street art da lui organizzato o, ancora prima, sui binari della ferrovia. Dal 2000 mette a punto la tecnica dello stencil, che gli consente di essere più rapido nell’esecuzione, e riconoscibile. Da subito i suoi lavori contengono gli elementi che lo caratterizzano ancora oggi: giochi di parole e parodia del potere. Nel 2003 comincia a usare l’immagine del ratto, realizza il suo primo graffito in Israele (tutt’ora esistente) che raffigura un ragazzo bianco nell’atto di scagliare un mazzo di fiori dal lato dei palestinesi. A Brighton graffita due poliziotti maschi nell’atto di baciarsi. In uno dei punti più turistici del West Country sfregia una roccia scrivendo lo slogan This is not a photo opportunity, ponendo se stesso e la street art come oggetto turistico. Inizia le incursioni nei musei, dove appende riproduzioni di tele famose a cui cambia alcuni elementi: un paesaggio di Constable riporta le transenne che usa la polizia per delimitare la scena del crimine; un ritratto seicentesco indossa una maschera antigas; su una campagna francese, i carri dei covoni sono imbrattati di graffiti. Li appende di nascosto in tutti i più grandi musei, dal Met al Moma di New York, al British Museum di Londra, e i quadri rimangono svariate ore, a volte anche giorni, prima che la polizia se ne accorga.

GUARDA IL VIDEO. Le metamorfosi di Banksy

Crolla Wall Street? «Che mangino crack»
Il 2005 è l’anno degli interventi sul muro della Cisgiordania: nove graffiti fortemente politici, per cui ha rischiato la vita fra gli spari dei cecchini che lo volevano fermare. Una bambina sogna di essere trasportata in alto verso la libertà da un gruppo di palloncini e, da un’altra parte, una finta breccia nel muro mostra un bambino sorridente, intento a costruire castelli di sabbia sotto un cielo sereno. Nel 2006 a Disneyland, in California, mette un fantoccio gonfiabile vestito da prigioniero di Guantanamo lungo i binari delle montagne russe. Nel novembre 2008, all’apice della crisi finanziaria che ha lasciato oltre due milioni di americani senza lavoro, nel bel mezzo di Soho, fra le gallerie più potenti del pianeta, compare un enorme ratto, vestito da trader di Wall Street, che pronuncia una parodia della celebre frase di Maria Antonietta (nel caso di Banksy: «Che mangino crack»). Nel 2010 gira un film, un documentario sul suo lavoro, Exit through the gift shop, così famoso da andare in nomination per l’Oscar. Racconta la storia di Banksy, ma anche della street art, dimostrando che chiunque, se vuole, può diventare un artista.

Benvenuti a Dismaland
Sulla copertina del dvd un senza tetto spinge un carrello in cui, insieme ai sacchi neri, porta la Gioconda, ancora una volta parodia dell’arte, della sua falsa pretesa di universalità e dei meccanismi che ne regolano la distribuzione. Tra il 2012 e il 2015 continua gli attacchi al sistema capitalistico, con opere irrisorie come The lifestyle you ordered is currently out of stock e come il banchetto con i suoi pezzi originali in vendita a Central Park per 60 dollari. Talmente riconoscibili che la gente li crede falsi e, a fine giornata, vende solo 8 pezzi. Inizia a prendere molto sul serio il tema dell’immigrazione, in lavori come Dismaland (realizzato con Damien Hirst e Jenny Holzer) arriva a costruire un vero e proprio parco di divertimenti, distopico, dove non troviamo lui, ma nemmeno più noi stessi.

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