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Dossier | N. 9 articoliTorna Sanremo, ledizione del 2019 sarà quella dell«armonia»

Fenomenologia di Sanremo, festival inventato (come la canzone italiana)

Arieccolo. Puntuale sul calendario, come fosse Natale, Pasqua o le poche altre feste comandate del mondo secolarizzato. Dal 5 al 9 febbraio va in scena la 69esima edizione del Festival di Sanremo, il secondo sotto la direzione artistica di Claudio Baglioni. Lo guarderete o no? E, se lo guarderete, il giorno dopo a lavoro ne parlerete bene o male? E soprattutto: per chi farete il tifo? Arisa o The Zen Circus? Nek o Motta? Il Volo o Achille Lauro? In una parola: il vecchio (non necessariamente nel senso anagrafico) o il nuovo? Forse non tutti sanno che la disputa è antica, almeno quanto il festival stesso.

La contrapposizione manichea, già dal trionfo di Nilla Pizzi con Grazie dei fiori (1951), rappresenta il sale della kermesse, forse addirittura l’ingrediente segreto grazie al quale Sanremo è Sanremo. La divisione, probabilmente il sentimento comune più potente nel Paese di guelfi e ghibellini, nel caso di Sanremo è prima di tutto una divisione tra innovazione e tradizione. Curioso, se ci pensate, perché nel 1951, quando il Festival debuttò, neanche esisteva una canzone italiana tradizionale. Ma esisteva, come è esistito in ogni epoca, il sentimento della nostalgia che a ben guardare rappresenta un vero e proprio elemento costitutivo della popular music. E allora, in nome della nostalgia, si aprano pure le ostilità tra melodia e ritmi americani, «capinere» e «papaveri e papere», tenori leggeri e urlatori, disimpegno e cantautori, fino ad arrivare all’odierno conflitto che - fuori dal Festival ma pure un po’ dentro - vede contrapposte la musica impegnata di ieri da una parte, l’indie e la trap di adesso dall’altra.

Questa lettura «dialettica» dell’evento più chiacchierato e, quasi per paradosso, meno approfondito dell’italico showbiz ce la propone il musicologo Jacopo Tomatis nella sua Storia culturale della canzone italiana (Il Saggiatore, euro 38, pp. 816), monumentale saggio che ripercorre la parabola della cosiddetta «musica da fanteria» (espressione coniata da Baglioni, nel suo discorso programmatico di apertura a Sanremo 2018) dalle origini a The André, il misterioso parodista che reintepreta i brani di Sfera Ebbasta con lo stile e la voce dell’immenso Fabrizio De André. Storia della canzone italiana, ma non nel senso classico del termine: all’autore preme infatti di indagare la vita delle «canzonette» dall’alto verso il basso, nel senso di andare a comprendere come un prodotto culturale di massa nei diversi decenni sia stato recepito dai diversi gruppi sociali che costituiscono il corpo del Paese.

Ribaltando tanti luoghi comuni, primo fra tutti quello che vuole Sanremo «specchio del Paese». Quando è stato spesso vero il contrario. E sul palco si sono visti miti e riti che avrebbero influenzato nel bene e nel male tutto il mondo fuori. Perché la canzone italiana non è affatto un fenomeno che arriva dal basso: nasce quasi come un’«eresia» della canzone napoletana e delle arie d’opera più celebri, in un processo di «invenzione della tradizione» che ha nell’istituzione di Sanremo da parte della Rai un momento decisivo.

Da quel preciso momento, è lotta senza quartiere tra eredi della tradizione e innovatori ed è sorprendente la rapidità con la quale dalla seconda categoria si possa finire nella prima. Gli uni rassicurano con l’immaginario e le rime baciate, gli altri suonano spesso come una minaccia, fenomeno destabilizzante per i costumi giovanili. E la minaccia di oggi lascia presto il posto a quella di domani. Perché la società italiana, negli anni a cavallo del boom economico, cambia in fretta. E gli intellettuali, la critica con la «c» maiuscola, i musicologi più stimati che fanno? Spallucce, in nove casi su dieci. Di fronte al futuro autore di Nel blu dipinto di blu (1958), brano che segnerà il primo punto di rottura della storia del Festival e della canzone italiana, l’influente Massimo Mila se ne esce per esempio con un «salvo errore od omissione, possibilissimi, data la nostra scarsa stima del campo», Domenico Modugno è «la sola briscola che noi italiani si possa opporre a fatti come la canzone francese o il blues dei negri d’America».

Negli anni Cinquanta trionfa lo snobismo, al massimo una bonaria accondiscendenza nei confronti di quella che viene bollata come «musica di consumo», ci vorranno i Sessanta e l’eclettismo di Umberto Eco per comprendere che «non è necessario che intrattenimento ed evasione, gioco, ristoro siano perciò stesso sinonimo di irresponsabilità, automatismo, qualunquismo, ghiottoneria sregolata». Le levate di scudi contro la musica di oggi all’autore del libro fanno insomma un particolarissimo effetto déjà vu. «L’incapacità di immaginare il futuro - scrive Tomatis - è anche l’incapacità di superare i vecchi paradigmi, di costruire altre estetiche. Alla fine, anche nel nostro approcciarci alla musica pop, tendiamo a leggere i fenomeni che ci paiono “nuovi” attraverso lenti già abbondantemente usurate: la non commercialità come forma di valore artistico, l’autenticità, l’autorialità, persino il panico morale e la convinzione che la nuova musica non potrà mai essere meglio della vecchia musica». Ma quando si parla di canzoni, come si fa a essere laici? Siamo critici e pure un po’ «tifosi», com’è sempre stato al Festival. Sin dalla prima edizione.

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