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Dossier Accordo di libero scambio del Pacifico, perché io dico «no»

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    Accordo di libero scambio del Pacifico, perché io dico «no»

    Recentemente sono stato a Washington per tenere un discorso alla National Association of Business Economists. L'argomento era il Partenariato transpacifico. Per non tenervi nell'incertezza, vi dirò che il mio giudizio su questo progettato accordo commerciale è negativo. Non penso che sia quel terribile patto divora-lavoratori che qualcuno paventa a sinistra, ma non mi sembra una buona cosa né per il mondo né per gli Stati Uniti; e mi domando perché l'amministrazione Obama sia intenzionata a spendere capitale politico per condurre in porto le trattative.

    La prima cosa da sapere è che quasi tutti attribuiscono un'importanza eccessiva alla politica commerciale. Questo si può spiegare in parte con il fatto che parlare di commerci internazionali suona affascinante e lungimirante, e perciò tutti fanno a gara a mettere i commerci internazionali al centro delle loro osservazioni.Inoltre, entra in gioco una dinamica particolare, che coinvolge anche il ruolo dei commerci internazionali nella storia dell'economia. Il vantaggio comparato è stato un primo, classico esempio di come il ragionamento economico possa condurre a risultati che sono corretti pur non essendo evidenti; naturalmente gli economisti desiderano da sempre che questa vittoria intellettuale possa pesare anche nel mondo reale. Tutto questo ha innescato una dinamica peculiare: il vantaggio comparato dice «Viva il libero scambio!», ma indica anche che quando i commerci sono già piuttosto aperti, aprirli ulteriormente porta benefici limitati. Ma gli economisti vogliono continuare a gridare «Viva il libero scambio!» e perciò si mettono a cercare ragioni che possano ingigantire questi benefici.

    Un uso particolarmente perverso di questa passione liberoscambista sono i tentativi ostinati di accollare la responsabilità delle recessioni al protezionismo e spacciare la liberalizzazione degli scambi come via per la ripresa. Quante volte avete visto il grafico «a ragnatela» di Kindleberger, che mostra il declino dei commerci mondiali nei primi anni della Grande Depressione, invocato come prova dei disastri del protezionismo? In realtà non dimostra niente del genere. Il fatto è che oggi i commerci mondiali sono abbastanza liberi e le stime sui costi del protezionismo basate sui modelli più diffusi sembrano indicare che tali costi sono abbastanza ridotti. Le restrizioni ai commerci semplicemente non rappresentano un freno significativo per l'economia mondiale, oggi come oggi, e di conseguenza i vantaggi che possono derivare da una liberalizzazione sono inevitabilmente contenuti.

    E il Partenariato transpacifico, per entrare nello specifico? Nell'agricoltura esistono ancora barriere significative, ma i sostenitori dell'accordo mettono l'accento soprattutto sui servizi, cioè su un accesso più diffuso. Ma quanto può valere rimuovere alcune di queste barriere? Io ho calcolato che l'«iperglobalizzazione» (l'espansione senza precedenti dei commerci mondiali avvenuta dal 1990 in poi) ha accresciuto il reddito planetario di circa il 5 per cento. A mio parere, è implausibile che il Partenariato transpacifico possa aggiungere più di uno zero virgola qualcosa al reddito delle nazioni coinvolte. Sempre meglio che niente, ma non stiamo parlando di un accordo che rivoluzionerà il pianeta.

    Perché, allora, certi soggetti sembrano desiderare spasmodicamente questo trattato? Perché come in molti accordi «commerciali» degli ultimi anni gli aspetti legati alla proprietà intellettuale sono più importanti degli aspetti commerciali. Alcuni documenti trapelati sembrano indicare che gli Stati Uniti stanno cercando di portare a casa tutele molto più estese per brevetti e copyright, in gran parte per venire incontro ai desiderata degli studios hollywoodiani e delle compagnie farmaceutiche, non degli esportatori convenzionali. Che dire al riguardo?

    Per esempio che non dobbiamo mai dimenticare che tutelare la proprietà intellettuale significa creare un monopolio, significa lasciare che i detentori di un brevetto o di un copyright riscuotano denaro per qualcosa (l'uso di conoscenza) che ha un costo marginale sociale pari a zero. In questo senso la tutela della proprietà intellettuale introduce una distorsione diretta che rende il mondo un po' più povero.

    (Traduzione di Fabio Galimberti)

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