Finanza & Mercati

Una mossa (obbligata) che guarda alla Cina

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l’analisi

Una mossa (obbligata) che guarda alla Cina

Un'altra riunione del vertice della Fed, un altro rinvio dell'aumento dei tassi di interesse. La previsione generale, espressa anche dall'andamento positivo dei mercati, è stata confermata, ma dietro questa ulteriore dilazione si intravvedono vari motivi di preoccupazione. In effetti ieri c'erano solo due vere ragioni per giustificare l'aumento dei tassi: evitare una perdita di credibilità alla Fed, che ormai da oltre due anni annuncia come imminente una svolta che sembra non arrivare mai e soprattutto stabilizzare le aspettative sui mercati.

Sotto questo profilo, secondo alcuni sarebbe meglio dissipare l'incertezza una volta per tutte: insomma, via il dente, via il dolore. Ma queste ragioni hanno poco a che fare con la realtà macroeconomica e finanziaria di oggi, soprattutto se si considera che non è affatto detto che la reazione dei mercati all'aumento che prima o poi verrà sarà così calma e ordinata: basti pensare alle reazioni isteriche del maggio 2013 (si è ricorsi al termine tantrum, cioè le bizze dei bambini) che seguirono il semplice annuncio che la Fed (allora presieduta da Bernanke) stava pensando a un aumento dei tassi e che portarono il tasso dei titoli pubblici decennali dall'1,6% al 2,5%. Basta il pensiero, come si dice.

Il primo motivo di preoccupazione alla base dell'ennesimo rinvio riguarda lo scenario macroeconomico mondiale, perché nessuna banca centrale e tanto meno quella americana può permettersi di guardare solo alla situazione interna. Su questo fronte, le incognite più gravi riguardano la Cina non tanto per il rallentamento in atto dei tassi di crescita, che comunque si attestano su valori di tutto rispetto, ma perché non è più sostenibile un modello di sviluppo basato su investimenti che superano il 40% del Pil. Occorre quindi uno spostamento verso i consumi mai sperimentato nella storia, con tutte le incognite sociali e politiche che questo comporta. E comunque un rallentamento degli investimenti cinesi, che rappresentano ormai un terzo della domanda globale, non mancherà di avere un impatto negativo sulle esportazioni dei Paesi avanzati, Stati Uniti e Germania in testa. Tutto questo significa che si consolidano i rischi dello scenario di Grande Stagnazione paventati da Lawrence Summers, cioè di un prolungato periodo in cui il prodotto cresce poco e comunque si mantiene inferiore a quello potenziale. Non a caso, l'economista americano si è espresso con molto vigore contro un aumento immediato dei tassi.

Le preoccupazioni finanziarie non sono meno importanti e derivano dal fatto che il debito ha continuato a crescere dopo lo scoppio della crisi, sia nei Paesi avanzati sia negli emergenti. Può sembrare paradossale, visto che l'eccesso di debiti è stato il fattore scatenante della crisi e dei successivi otto anni di guai, ma è anche l'ovvia risposta al fatto che i tassi di interesse, compresi quelli a lungo termine, non erano mai stati così bassi per così lungo tempo. Il lungo ciclo di discesa dei tassi dura da oltre trent'anni. Dunque un incentivo costante e sempre più forte a indebitarsi.

L'ultimo bollettino trimestrale della Banca dei regolamenti internazionali richiama l'attenzione proprio sul problema del debito dei Paesi emergenti (Cina inclusa), che dal 2007 è più che raddoppiato in valore nominale ed è aumentato di circa 50 punti percentuali rispetto al Pil. Inoltre, pesa l'incognita dei finanziamenti alle imprese denominati in dollari, stimati in quasi 10 trilioni. Un aumento del costo relativo (amplificato dall'effetto cambio) renderebbe una parte di quel debito insostenibile per soggetti che oggi sono colpiti dalla riduzione dei prezzi delle materie prime e/o di quelli immobiliari. Il che comporta pressioni deflattive e un inevitabile deterioramento patrimoniale di sistemi bancari su cui gravano già pesanti incognite. Non a caso, il Fondo monetario, che già nel suo rapporto di primavera aveva espresso preoccupazioni sull'aumento del debito dei Paesi emergenti (Cina incluso Hong Kong in testa) si è schierato contro l'aumento dei tassi Usa in una sede autorevole e ufficiale come il G-20 di inizio settembre.

Un ulteriore rinvio dell'aumento dei tassi è quindi la scelta più saggia e certamente accontenta tutti. Ma è anche il segno che la politica monetaria (non solo in America) è stata caricata di compiti eccessivi e che la Fed, come le altre banche centrali, oggi è da un lato schiava dei propri successi e dall'altro è sempre più sola in un ruolo di sostegno all'economia produttiva che si rivela sempre meno efficace e sempre più rischioso. Il più basso livello dei tassi di interesse della storia non ha promosso né gli investimenti produttivi delle imprese né le infrastrutture. Al contrario, come ormai ammoniscono anche esponenti di autorità internazionali, come Claudio Borio della Bri, favoriscono l'accumulazione di debiti, anche oltre i limiti di sostenibilità, portano a un'allocazione non efficiente delle risorse e in genere privilegiano gli impegni finanziari rispetto a quelli produttivi.

Sotto questo profilo, le principali banche centrali sembrano medici costretti ad usare terapie eccezionali, in attesa che si realizzino le politiche, di competenza esclusiva dei governi, atte a promuovere la crescita. I veri temporeggiatori non sono i vertici della Fed o delle principali banche centrali. Sono i governi che tardano a mettere in atto risposte credibili per risolvere i problemi strutturali posti in evidenza dalla crisi. Sono loro i veri convitati di pietra delle riunioni che si concludono con i comunicati anodini (e un po' imbarazzati) di ieri.

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