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È il giorno della Bce. Dall’inflazione al debito, i…

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È il giorno della Bce. Dall’inflazione al debito, i risultati di un anno di «Qe»

Ha compiuto un anno ieri e già si prepara al secondo lifting. Il quantitative easing all’europea, l’acquisto di titoli pubblici che la Bce ha iniziato il 9 marzo 2015 e che è andato a sommarsi ad altre misure di stimolo prese dall’istituto a partire dalla metà dell’anno precedente, ha prodotto buoni risultati.

L’efficacia del programma è rivendicata dai suoi sostenitori, a partire dal presidente della Bce, Mario Draghi («Le nostre misure stanno funzionando», ha detto in più occasioni), ma per ora il Qe è ben lontano dall’obiettivo ultimo, riportare l’inflazione dell’Eurozona vicina al 2%.

Il problema, dice una fazione dei suoi critici, è che il Qe europeo è partito troppo tardi, quando per esempio la Federal Reserve americana, la Banca d’Inghilterra e la Banca del Giappone avevano già imboccato da tempo questa strada, e solo una volta esauriti i tentativi con altri strumenti meno efficaci, e in misura troppo timida. Per i critici della fazione opposta, che trovano voce in Germania, ma non solo, non avrebbe dovuto partire affatto, e quel che resterà saranno soprattutto gli effetti collaterali negativi.

La prima revisione del Qe, a dicembre, ha decretato l’allungamento almeno fino a marzo 2017, il reinvestimento dei titoli in scadenza, l’inclusione di titoli degli enti locali, oltre a un taglio del tasso sui depositi. Il fatto che tre mesi dopo la Bce ci stia mettendo mano di nuovo è la riprova che non è bastato. Del resto, anche le altre grandi banche centrali hanno proceduto per aggiustamenti successivi.

Inflazione
Alla fine, il successo del Qe verrà misurato sul metro della stabilità dei prezzi, mandato esclusivo della Bce. All’avvio degli acquisti, gli economisti di Francoforte prevedevano che l’inflazione (a -0,6% quando il Qe fu annunciato nel gennaio 2015) sarebbe risalita all’1,5% quest’anno e all’1,8% il prossimo. Nel dicembre scorso, le stime erano state tagliate all’1% e all’1,6%. Oggi, le proiezioni dello staff confermeranno quando si sa da tempo, che il 2016 resterà nettamente al di sotto dell’1% (a febbraio era -0,2%), ma anche che l’obiettivo di avvicinarsi al 2 non verrà raggiunto nel 2017, come si pensava un anno fa, e forse nemmeno nel 2018. Secondo Draghi, senza le misure della Bce l’inflazione sarebbe stata «almeno un mezzo punto percentuale più bassa nel 2016 e fra un quarto e un terzo nel 2017». Chiaramente, il crollo del petrolio ha avuto un impatto decisivo, ma anche l’inflazione “core”, depurata dai prezzi dell’energia e degli alimentari, ha smesso di crescere. Per di più le aspettative sembrano essersi disancorate e sono sempre più in balia del prezzo del petrolio e meno della politica monetaria. La delusione dei mercati per il “pacchetto” di dicembre ha a sua volta pesato.

Crescita
La Bce stima che le sue misure hanno aggiunto un 1% fra il 2015 e il 2017. Il picco della modesta ripresa dell’Eurozona però si è avuto nel primo trimestre 2015, prima che il Qe partisse, con un’espansione trimestrale dello 0,5 per cento. Successivamente, la crescita è andata decelerando, senz’altro influenzata da fattori esterni, come il rallentamento della domanda globale, soprattutto dei mercati emergenti, non del tutto compensata dalla tenuta della domanda interna.

Euro
Il cambio non è un obiettivo della politica monetaria, ma non c’è dubbio che il suo aggiustamento ha contribuito a spingere la ripresa. Una gran parte dell’effetto sull’euro (sia sul dollaro, passato da 1,40 a 1,10, sia su un paniere ponderato di valute) si è prodotta sull’aspettativa del Qe più che dopo la sua attuazione. Anche qui ha pesato la caduta delle monete degli emergenti, oltre alle incertezze sulla stretta della Fed e al contraccolpo di dicembre. L’euro resta comunque nettamente più debole che alla metà del 2014.

Credito
È su questo punto che normalmente Draghi rivendica il maggior successo delle misure della Bce (oltre al Qe, le varie iniezioni di liquidità al sistema bancario, come le Tltro, e il taglio del tasso sui depositi delle banche presso la Bce stessa). Il tasso medio sui prestiti, secondo le stime di Francoforte, è sceso di 80 punti base nell’area dell’euro e di 110-140 nei Paesi più colpiti dalla crisi. Italia e Spagna sono stati fra i maggiori beneficiari. Sostiene Draghi che per ottenere lo stesso effetto la Bce avrebbe dovuto tagliare i tassi ufficiali di 100 punti base. Anche il divario fra le condizioni alle grandi e alle piccole e medie imprese si è ridotto. Quanto ai volumi, il credito alle imprese è migliorato molto lentamente e solo dalla metà del 2015 ha ripreso a crescere. Meglio quello alle famiglie. È tornata anche la domanda di credito.

Debito pubblico
Gli acquisti di debito pubblico hanno contribuito a far scendere i rendimenti, favorendo consistenti risparmi per le casse dei Governi: 6,5 miliardi di euro per l’Italia, ma anche 5,1 miliardi per la Germania. Se però il Qe non raggiungerà l’obiettivo finale di far risalire l’inflazione, l’effetto sui grandi debitori, Italia in primis, sarà devastante.
Il giudizio definitivo resta sospeso.

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