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Acciaio, in Cina Baosteel chiude impianti pari all’Ilva di Taranto

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Acciaio, in Cina Baosteel chiude impianti pari all’Ilva di Taranto

Mentre in Europa la crisi dell’acciaio sembra spingere a un ulteriore consolidamento, anche in Cina finalmente qualcosa inizia a muoversi. Baosteel, uno dei giganti siderurgici del Paese , ha comunicato che nel giro di due anni chiuderà in modo definitivo 9,2 milioni di tonnellate di capacità. Il taglio equivale alla produzione dei tempi d’oro dell’Ilva di Taranto e a ben un quarto dell’attuale output del gruppo cinese.

La stessa Baosteel aveva annunciato a fine giugno di aver avviato insieme a Wuhan Iron & Steel (Wisco) una «ristrutturazione strategica», piano che molti osservatori interpretano come l’anticamera di una fusione tra i due gruppi (si veda il Sole 24 Ore del 28 giugno).

Di integrazioni si ricomincia intanto a parlare anche nell’industria siderurgica europea. Dopo le due offerte concorrenti per l’Ilva, depositate da Am Investco Italy (ArcelorMittal con Marcegaglia) e AcciaiItalia (Arvedi, Cdp e DelFin), è stato confermato che sono in corso trattative tra ThyssenKrupp e l’indianaTata Steel. Il gruppo tedesco ha comunque precisato lunedì che i colloqui con Tata non sono esclusivi e che non si può dire «quando e con chi» ci sarà un’eventuale fusione. Se questa avvenisse la quota di Thyssen sul mercato europeo passerebbe dal 13 al 25%, stimano gli analisti, molto vicina al 33% di Arcelor (che tuttavia salirebbe al 40% se mettesse le mani sull’Ilva).

La nuova fase di consolidamento arriva dopo anni di sofferenza nel settore, aggravata dalla concorrenza sempre più spietata della Cina. I consumi europei di acciaio si sono ridotti di quasi un terzo rispetto a prima della Grande recessione e la produzione è crollata insieme ai prezzi, schiacciata in gran parte dal dumping cinese. Le esportazioni record di Pechino, spesso sotto costo, sono a loro volta il frutto di una crisi forse irreversibile, che dipende non solo dal rallentamento dell’economia locale - che ha indebolito i consumi - ma soprattutto dallo sviluppo abnorme dell’industria siderurgica.

Dopo anni di proclama andati a vuoto, forse convinta anche dalle pressioni politiche internazionali, ora Pechino sembra fare sul serio. I piani di riduzione della capacità produttiva sono sempre più circostanziati, accompagnati da tempi di esecuzione precisi e dallo stanziamento di fondi per ricollocare il personale in esubero.

Venerdì la Sasac, la Commissione che amministra e supervisiona le società pubbliche, ha stabilito che i produttori statali di acciaio e carbone (tra cui Baosteel e Wisco) dovranno ridurre la capacità del 10% in due anni e del 15% entro il 2020. Con un altro provvedimento Pechino ha anche imposto, per motivi ambientali, il rallentamento della produzione nelle acciaierie di Tangshan, un grosso centro siderurgico nella provincia di Hebei.

Le misure hanno avuto un impatto immediato sulle quotazioni delle materie prime del comparto, con rialzi di oltre il 5% per la vergella a Shanghai (ma anche, controintuitivamente, per il minerale di ferro e il cabone metallurgico a Dalian). Un rally che, se sostenuto, rischia di intralciare la riorganizzazione del settore: se i grandi gruppi statali tagliano la produzione, la risalita dei prezzi dell’acciaio può diventare un salvagente per la miriade di piccoli produttori, quasi sempre inefficienti e inquinanti, che operano in tutta la Cina.

A dimostrazione di quanto sarà difficile arrivare davvero a una svolta c’è anche la vicenda del Dongbei Special Steel Group, il maggior produttore cinese di acciai speciali, con oltre 10mila dipendenti. Il gruppo, controllato dalla provincia del Lianoning, ieri ha inanellato il sesto default in quattro mesi. I suoi debiti, intorno a 6 miliardi di dollari, sono il doppio del fatturato annuo. Ma Dongbei non è ancora fallito, né ha avviato alcun tipo di ristrutturazione. E soprattutto continua a produrre come prima, al ritmo di 1,8 milioni di tonnellate l’anno (che per un terzo esporta).

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