Finanza & Mercati

Torna l’inflazione, cosa rivedere nel proprio portafoglio

  • Abbonati
  • Accedi
investimenti

Torna l’inflazione, cosa rivedere nel proprio portafoglio

Bentornata inflazione. Fra qualche mese, forse proprio sotto l’albero di Natale, i banchieri centrali potrebbero trovare quel regalo che hanno costantemente cercato di ottenere in questi ultimi anni a suon di politiche monetarie ultraespansive. Gli indicatori sui prezzi al consumo stanno puntando verso l’alto un po’ ovunque - Stati Uniti, Gran Bretagna, persino Eurozona come dimostrano i dati diffusi proprio in questi giorni - e la dinamica pare destinata a proseguire anche nei prossimi mesi, almeno fino a primavera.

Ma se la parola inflazione (anche se gli analisti amano parlare piuttosto di «reflazione» per indicare il moderato aumento dei prezzi che segue un periodo di deflazione) appare ormai sempre più gettonata sulla stampa come nei report delle banche d’affari, il fatto che il dono ricevuto sia davvero quello chiesto dalle Banche centrali, oppure che non venga poi chiesto indietro fra qualche mese resta tutto da dimostrare.

Volendo uscire dalla metafora, non è certo un mistero che l’ultima ripresa dei prezzi sia in larga parte attribuibile a un effetto base dettato dalle materie prime, i cui valori si confrontano con quelli minimi registrati 12 mesi fa. La tendenza proseguirà anche a inizio 2017, poi però per proseguire nella sua normalizzazione all’inflazione servirà altro, soprattutto in area euro. Per capirlo è sufficiente guardare i livelli core dei prezzi - quelli che escludono le componenti più volatili, come alimentari e petrolio appunto, e che misurano la tendenza di fondo - che non sono certo in salita: l’indice europeo rimane infatti piantato a uno 0,8% molto distante dall’obiettivo «sotto, ma vicino al 2%» fissato dall’Eurotower. Anche le attese a medio-lungo periodo riflesse dal mercato non brillano, visto che l’indicatore più seguito dalla Bce, pur viaggiando ai massimi da giugno resta sempre all’1,42 per cento.

Altrove la situazione è differente, ma soltanto in parte: in Gran Bretagna, dove l’incremento dei prezzi è più elevato ora e in prospettiva, si aggiunge l’aggravante del forte deprezzamento della sterlina post Brexit, che favorisce l’inflazione «importata», e ci sono anche serie possibilità che la Banca d’Inghilterra possa di nuovo intervenire a breve. Negli Stati Uniti il tasso core si è mantenuto sopra la soglia obiettivo del 2% per l’undicesimo mese consecutivo, eppure oltre il 30% degli operatori si ostina a pensare che la Federal Reserve non procederà all’atteso rialzo dei tassi neppure a dicembre. Questo perché da un lato la crescita Usa non sembra poi così consolidata e dall’altro la stessa Janet Yellen ha di recente ventilato la possibilità di far «surriscaldare» economia e prezzi.

Più in generale, e tornando all’Eurozona, ciò a cui stiamo assistendo è un timido tentativo di ripresa dei prezzi, in parte peraltro scontato, che non porta necessariamente molta acqua al mulino della Bce. Manca infatti ancora all’appello quella che gli economisti definiscono la componente «buona» dell’inflazione, determinata da una reale espansione della domanda di beni e servizi tipica di un’economia che cresce in modo sano. Discorsi simili non valgono purtroppo ancora per l’area euro, dove almeno nel complesso la ripresa è fragile e la dinamica dei salari (tassello fondamentale nel processo) resta debole, perfino in Germania come fanno notare gli analisti di Hsbc. E se la situazione è questa, un indice dei prezzi in aumento servirà probabilmente solo a rendere più arduo il compito di Mario Draghi al cospetto dei «falchi» che siedono a suo fianco nel Consiglio Bce.

Quando si guarda ai mercati, i riflessi del ritorno di fiamma dell’inflazione si vedono già da qualche settimana nell’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato a livello globale e in particolare nel movimento più accentuato sulle scadenze più lunghe. Ciò che in linguaggio tecnico si chiama «irripidimento della curva dei tassi» è legato alle attese di politiche monetarie più restrittive (o meno espansive) proprio a causa del surriscaldamento dei prezzi, oltre che alla mossa fuori dal coro con cui la Banca del Giappone a settembre ha iniziato a controllare il tasso dei bond decennali.

Un fenomeno simile non rappresenta certo un buon segnale per chi opera in modo attivo su obbligazioni a tasso nominale, anche se l’impatto sui titoli dell’Eurozona e sui BTp italiani risulta in parte mitigato dall’azione in acquisto della Bce. Per i bond indicizzati all’inflazione (quale anche il BTp Italia che oggi chiude il collocamento al pubblico) potrebbe esserci adesso qualche chance in più. A patto però che l’incremento dei prezzi al consumo si dimostri appunto duraturo, e non sia invece un fuoco di paglia.

Per lo stesso motivo il giudizio resta al momento sospeso anche sull’azionario, che in linea teorica non ama le fasi in cui salgono inflazione e rendimenti delle obbligazioni perché questo implica una riconsiderazione del premio al rischio necessario all’investimento in Borsa. Anche qui però il discorso rischia di essere più articolato perché, come ricordava proprio ieri uno studio di Morgan Stanley, tassi più elevati che si accompagnano a una crescita più sostenuta costituiscono un ambiente propizio per le azioni, mentre in assenza di questa l’equity ridiventa vulnerabile. La discriminante, in fondo, resta la stessa.

© Riproduzione riservata