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Lo scudo di Stato per Mps e le risorse per le banche sane

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La questione bancaria

Lo scudo di Stato per Mps e le risorse per le banche sane

Il possibile intervento dello Stato come «garante» di una ripatrimonializzazione precauzionale delle banche italiane in crisi farà certamente discutere. Ci sarà chi contesterà il ritorno della mano pubblica nel settore del credito e chi invece dirà che l’intervento era ed è indispensabile e casomai tardivo, essendo necessario fin dal 2011. Nel frattempo sono entrate in vigore le nuove regole europee sui salvataggi bancari, lo stock dei crediti in sofferenza delle banche italiane è aumentato e i tentativi di sistema di arginare le situazioni di crisi sono serviti solo a tamponare le emergenze. Ma non a risolvere i problemi delle sette o otto banche che erano e restano in crisi.

Nell’ultimo anno la maggioranza delle banche sane ha contribuito in vari modi ai salvataggi tuttora incompiuti: dall’anticipo dei costi futuri del fondo di risoluzione alla costituzione del fondo volontario, fino all’intervento nel fondo Atlante. Forse è arrivato il momento che un investitore paziente come lo Stato (come hanno fatto anni fa gli Stati Uniti, con un esito che poi si è dimostrato positivo sia per le banche che per i contribuenti americani), si faccia carico della ricapitalizzazione delle banche in crisi e liberi responsabilmente da questo compito, evitando un possibile futuro effetto contagio, la maggioranza delle banche italiane sane. Da Intesa a UniCredit, dalle grandi popolari del centro nord alle casse e banche private fino ad arrivare alle Bcc, c’è un sistema del credito che è solido o che è in grado di risolvere i propri problemi con un accesso diretto al mercato.

A questi istituti, che hanno già destinato alcuni miliardi per i vari salvataggi degli ultimi anni, non si può chiedere ancora di contribuire alla tutela delle banche in crisi. Molto meglio, anche per il rispetto dovuto ai loro azionisti italiani ed internazionali, che le banche sane dedichino interamente le proprie forze al finanziamento dell’economia. E che ai salvataggi dei pochi istituti pericolanti, tutelando il risparmio come previsto dalla Costituzione, ci pensi lo Stato. In questo senso si inserisce il decreto, pronto da giorni, che dovrebbe mettere a disposizione un plafond di 15 miliardi di euro per dare una garanzia di ultima istanza agli aumenti di capitale delle banche che potrebbero avere difficoltà a trovare le risorse sul mercato.

Il caso principale resta l’evoluzione della crisi di Mps che, in attesa del pronunciamento «formale» di Bce sull’ipotesi di un rinvio al 20 gennaio dell’aumento di capitale, resta alle prese con l’alternativa (da sciogliersi entro lunedì) tra proseguire con il complesso tentativo di piano privato promosso da JP Morgan oppure virare verso la garanzia pubblica da attuarsi, secondo le nuove regole europee, attraverso il meccanismo del «burden sharing».

Un meccanismo che, seppure attuato con le modalità più prudenti, comporterà comunque anche la conversione obbligatoria dei bond subordinati in azioni (non l’azzeramento, come accadde un anno fa per Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e Cariferrara) sia per gli investitori istituzionali che per i risparmiatori retail. Ai secondi, sulla base degli accordi definiti con la Commissione europea, potranno essere concessi rimborsi nei casi di mis-selling (vendita fraudolenta). Per i grandi fondi invece, nessuna forma di compensazione se non la prospettiva di una rivalutazione futura delle azioni Mps nei prossimi anni. In entrambi i casi, non mancheranno le proteste. E bisognerà vedere in che modo il mercato dei bond bancari italiani reagirà all’operazione. Sia sulle banche che dovessero essere coinvolte dal burden sharing, sia su quelle «sane» che a quel punto verrebbero liberate dalla zavorra di sistema e potrebbero tornare a essere più appetibili sul mercato.

Il nodo del fondo Atlante e di Veneto Banca e Vicenza
L’altro caso più evidente a cui potrebbe essere dedicato l’intervento dello Stato riguarda Popolare Vicenza e Veneto Banca, le due banche controllate con oltre il 97% dal fondo Atlante (a sua volta capitalizzato dal sistema finanziario italiano). Per i due istituti che viaggiano verso la fusione, si profilano nuovi maxi-accantonamenti sui crediti in sofferenza e un conseguente aumento di capitale stimato in due miliardi. L’intervento dello Stato diluirebbe Atlante, che già si prepara comunque a registrare una pesante minusvalenza. In alternativa, l’intervento dello Stato in Mps potrebbe liberare Atlante dall’operazione Npl a Siena e dirottare le risorse pienamente al rilancio di Veneto Banca e Popolare Vicenza. Ipotesi certamente migliore per i due istituti che, in caso di burden sharing, dovrebbero penalizzare i propri sottoscrittori retail di bond subordinati, spesso coincidenti con gli ex soci azionari che hanno intentato maxi-cause risarcitorie ai due istituti.

Le quattro good banks e le casse pericolanti
Il plafond che lo Stato sta valutando di riservare alle ricapitalizzazioni delle banche in crisi potrebbe essere esteso alle quattro good banks emerse dal salvataggio dell’anno scorso. Dopo varie proroghe concesse dalla Ue, l’ultima scade a fine anno, la loro vendita resta assai difficile. Per Ubi Banca, che ha in corso un tentativo al vaglio della Vigilanza Bce, la loro acquisizione potrebbe comportare un aumento di capitale da 500 milioni. In alternativa, è possibile che le quattro banche lancino un aumento di capitale e che, in assenza di investitori privati (si tratta di banche non quotate) sia lo Stato a farsi carico del rilancio. Così come per le Casse di Risparmio romagnole, da tempo a caccia di capitali dopo aver intaccato i ratios patrimoniali minimi della vigilanza (e in attesa di bilanci di ulteriore pulizia dei crediti). Se intervento dello Stato ci sarà, poi saranno inevitabili fusioni e aggregazioni tra i vari istituti salvati, con inevitabili ristrutturazioni, prima di tornare a essere appetibili per investitori privati.

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