Un tradizionale metodo per valutare l’andamento delle Borse? È quello di dare un’occhiata alla performance «lineare» dei listini principali. Si tratta di un sistema semplice, che non crea troppi problemi. Così, ad esempio, da inizio anno può rilevarsi che (alla chiusura del 23/3/2017) il mercato azionario spagnolo, in Europa, è quello che ha corso di più (+10,4%). Poi, tra i Paesi di Eurolandia, c’è la Germania (il Dax è in rialzo del 4,87%) seguita ad una incollatura dall’Italia (+4,85%). Più distaccata, invece, la Francia (+3,51%).
La fotografia scattata però, seppure fornisca una prima corretta suggestione, è superficiale. Il singolo numero racconta sempre metà della storia. In tal senso, ad esempio, l’impressione di forza offerta dall’Ibex di Madrid finisce un po’ sullo sfondo quando si valuta quanto manca al mercato in oggetto per tornare sui suoi massimi livelli. Come ha chiaramente mostrato Vito Lops, il paniere spagnolo dovrebbe salire di oltre il 50% per rivedere il suo record storico. Il Dax tedesco invece, più limitato nel rialzo da inizio anno, danza comunque sui livelli più alti di sempre. La prospettiva, evidentemente, cambia. E che dire, poi, dei cambi valutari? Le performance indicate sopra sono tutte di mercati dell’Unione Monetaria. Confrontate a Wall Street paiono «dignitose», in linea con il mondo Usa. L’S&P 500, ad esempio, da inizio anno sale di oltre il 5%. Già, ma contabilizzato in quale valuta? In dollari. Nel momento in cui si converte la sua performance in euro ecco che, immediatamente, la dinamica si modifica. Il paniere delle principali 500 capitalizzazioni statunitensi sale solamente del 2,57%. Con il che la salute dei mercati di Eurolandia, nel 2017, come per incanto migliora. Tutto dovuto, per l’appunto, all’effetto cambio. Insomma: i numeri sono essenziali ma devono, sempre, essere interpretati nella maniera corretta.
Il mondo dei dividendi
In tal senso, quando si analizza la performance di un indice, deve sempre ricordarsi un aspetto: l’ulteriore rendimento legato ai dividendi «offerti» dalle società che lo compongono. Ci sono dei Paesi, ad esempio gli Stati Uniti, che per cultura e per la struttura stessa della loro industria (spesso spinta sulla frontiera dell’innovazione) sono tradizionalmente poco legati allo stacco della cedola. Altri invece, e tra questi c’è sicuramente l’Italia, sono molto più attaccati al dividendo. Alla remunerazione dell’azionista attraverso la distribuzione dell’utile realizzato ai soci. A fronte di un simile contesto può, quindi, essere utile guardare il cosiddetto Dividend Yield. Vale a dire: il rapporto, in percentuale, tra la cedola e il prezzo dell’asset. Con, però, un’avvertenza. Proprio perchè si tratta di una frazione si deve sempre ricordare che l’eventuale maggiore rendimento può non essere legato al rialzo della cedola (numeratore). Bensì al calo del denominatore (l’asset sottostante).
Il confronto tra gli indici
Ciò detto, secondo il terminale Bloomberg, il dividend yield corrente del Ftse Mib (3,54%) è il secondo tra quelli dei principali listini del Vecchio continente. Il primo gradino del podio è appannaggio dell’Ibex (3,63%). Più in basso, invece, il rendimento da dividendo dell’Euro Stoxx 50. Il paniere paneuropeo vanta infatti un dividend yield del 3,4%. La graduatoria, a ben vedere, varia un po’ se si guarda al valore stimato per fine 2017. In questo caso Piazza Affari conquista il primo posto (3,8%). A seguire: il mercato di Madrid (3,67%) e quello di Parigi (3,4%). Più indietro, infine, il Dax tedesco che è caratterizzato da un dividend yield 2,9%. (l’Euro Stoxx 50 è al 3,48%).
La storia insegna sempre qualcosa
Al che il signor Rossi, però, domanda: si tratta di percentuali estemporanee oppure no? La risposta, ovviamente, sta nelle serie storiche di ciascun indice. Così, rispetto al listino milanese, si nota che il dividend yield dal 2009 ad oggi è sempre stato sopra il 3% (nel 2011 ha raggiunto il 5,33%) tranne che in due occasioni: nel 2013 quando il rapporto tra il monte cedole del paniere e il valore dello stesso si è fermato al 2,94% e nel 2015 (2,95%).
Un po’ diversa la storia dell’Ibex. Qui, infatti, negli anni passati l’indicatore era molto più in alto: nel 2009, ad esempio, ha superato il 6,2%. Negli ultimi esercizi, invece, il valore si è ridotto. Il chiaro effetto della ripresa dei corsi azionari. E gli Stati Uniti? Negli Usa, per l’appunto, la cedola non è molto di moda. Così quello che si nota è un rendimento del dividendo sull’S&P 500 più contenuto (2,07% quello stimato sul 2017) ma costante nel tempo. Nel 2019 il dividend yield dell’indice era il 2,12% e, negli esercizi successivi, l’indicatore ha sempre danzato attorno al valore del 2%. Un po’ sopra e un po’ sotto.
© Riproduzione riservata