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L’Asia coltiva i semi del prossimo rally del petrolio

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L’Asia coltiva i semi del prossimo rally del petrolio

Il petrolio «made in Usa», con lo shale oil di nuovo in espansione e scorte che si ostinano a non scendere, ipnotizza gli investitori. Ma al di là delle apparenze è probabile che non saranno i fracker americani a decidere le sorti del mercato nei prossimi anni. E pure le mosse dell’Opec conteranno solo fino a un certo punto, anche se una rinnovata fiducia nella prosecuzione dei tagli produttivi ieri ha riportato il Wti sopra la soglia psicologica dei 50 dollari al barile.

Molto più importante è ciò che accadrà in Asia, non solo perché è questo il continente che guida – e continuerà a guidare – la crescita della domanda, ma anche perché è qui che la produzione di greggio, colpita duramente dalla crisi, potrebbe faticare a risollevarsi.

Entro il 2020, secondo gli analisti di Wood Mackenzie, l’Asia-Pacifico rischia di perdere un milione di barili al giorno di produzione, di cui quasi la metà in Cina e oltre un quarto in Indonesia, scendendo da 7,5 a 6,5 mbg. Già nel 2017, prevede Energy Aspects, in questa area geografica si svilupperà un deficit di offerta di almeno 900mila bg, che andrà colmato attraverso lo smaltimento delle scorte e/o un maggiore ricorso alle importazioni.

Le condizioni dei fondamentali potrebbero insomma diventare ben presto favorevoli a una ripresa dei prezzi del petrolio, nonostante il vento contrario che soffia dagli Stati Uniti.

Sono di questo parere anche alcuni dei maggiori trader petroliferi del mondo. L’industria, concentrandosi soprattutto su investimenti «a ciclo breve», come lo shale oil, sta commettendo un errore, avverte Daniel Jaeggi, presidente di Mercuria Energy Group: «Con i barili a ciclo breve nel giro di 3-4 anni non saremo in grado di soddisfare la domanda».

I produttori di shale oil stanno peraltro compromettendo il futuro dell’offerta anche in altri modi: con le loro attività di hedging sono tornati a deprimere anche le quotazioni lontane del greggio, rischiando di frenare ulteriormente lo sviluppo di giacimenti convenzionali, che richiedono una pianificazione di lungo termine.

Nel panorama dell’industria petrolifera asiatica è la Cina in particolare a suscitare allarme. E non tanto per i consumi, che pure si espandono a un ritmo inferiore al passato. Le importazioni di Pechino, del resto, non hanno smesso di correre e comunque l’India sembra pronta a raccogliere il testimone, diventando il nuovo motore di traino della domanda globale: l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) – che ieri ha accolto New Delhi come membro associato – prevede che la sua domanda crescerà a ritmi superiori a quelli della Cina entro il 2022.

L’emergenza più seria riguarda in realtà la produzione di greggio della Cina, che è una fonte di offerta tutt’altro che marginale: il gigante asiatico è il quinto produttore mondiale, superata solo da Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e – in tempi recenti – dall’Iraq, che ha accelerato fortemente le estrazioni mentre quelle cinesi rallentavano.

Nel 2016 la Cina è riuscita a produrre solo 4 mbg, un calo del 7% rispetto al 2015. E il Governo stesso non prevede che possa risollevarsi nei prossimi 5 anni.

I maggiori giacimenti del Paese sono vecchi, scoperti negli anni ’60 e ’70, e ormai in naturale declino. Continuare a sfruttarli richiede tecniche costose, che ai corsi attuali del petrolio non sono sostenibili. Ma anche se il prezzo del barile – e gli investimenti – risaliranno, secondo alcuni analisti sarà impossibile evitare un’ulteriore discesa dell’output senza nuove scoperte.

Proprio ieri Petrochina ha confermato la debolezza del settore, comunicando un crollo degli utili del 78% nel 2016, a 7,86 miliardi di renminbi (1,06 miliardi di euro) e una riduzione di oltre il 5% della produzione di greggio. La compagnia – come già annunciato dagli altri big cinesi del settore, Cnooc e Sinopec – tornerà ad espandere gli investimenti quest’anno, dopo averli diminuiti negli ultimi due, riportando il capex a 191,3 miliardi di Rmb (+11%). Ma riuscirà ad aumentare solo la produzione di gas: per il greggio Petrochina prevede un ulteriore calo del 4,5%.

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