La decisione di BlackRock di puntare sui computer licenziando i gestori in carne e ossa ha fatto discutere. Pochi giorni fa il leader mondiale del risparmio gestito ha infatti annunciato una rivoluzione che porterà all’eliminazione di decine posti di lavoro e ad affidare sempre più lo stock picking a software e algoritmi. E' l’inizio della fine per i gestori umani? Lo abbiamo chiesto a Osman Ali, lead portfolio manager e strategist del team di gestione attiva per le strategie azionarie quantitative in Goldman Sachs Asset Management.
Anche in Goldman Sachs Asset Management l’era dei big data si tradurrà in una perdita di posti di lavoro per i gestori in carne e ossa?
«I dati rappresentano la base del nostro modello di investimento, tuttavia i processi di ricerca e costruzione del portafoglio richiedono comunque il giudizio umano. I gestori di portafoglio esercitano il loro giudizio nel selezionare i dati e le analisi che utilizziamo per investire, oltre a rivedere e approvare ogni operazione per ciascun portafoglio. Questo per assicurare che tutte le posizioni di portafoglio siano sensate, economicamente valide e di dimensioni adeguate in base alle condizioni di mercato correnti: non utilizziamo, infatti, il classico computer messo in un angolo per lanciare trade senza alcun intervento umano».
Quindi il ruolo dell’essere umano resta in primo piano nella scelta degli investimenti anche nell’era della finanza quantitativa?
«Certo: anche se esaminiamo costantemente nuovi fattori e analisi che possono avere un impatto sui prezzi azionari, sono i nostri gestori di portafoglio a guidare il processo. Siamo convinti che il successo della ricerca non consiste nel trovare un nuovo titolo in cui investire, bensì nell’individuare un nuovo fattore d’investimento che ci consenta di migliorare il processo di selezione del titolo. I fattori di investimento dovrebbero basarsi sui fondamentali societari ed essere economicamente validi, e grazie ai dati disponibili possiamo verificare empiricamente le nostre ipotesi di investimento. Non lavoriamo mai nella direzione opposta, ovvero osservando le relazioni tra i dati per poi cercare di giustificarle o spiegarle a posteriori. In termini pratici, i gestori di portafoglio fanno affidamento anche sulla propria esperienza di professionisti e sulla conoscenza del mercato per valutare il futuro successo di un fattore di investimento. Alcuni trend di mercato o contesti di rischio possono favorire taluni fattori e penalizzarne altri. Questa consapevolezza consente ai nostri gestori di valutare più efficacemente il rischio in tempo reale».
Più in generale, quale sarà nei prossimi anni l’impatto dei big data nella gestione finanziaria?
«L’era dei big data sta già avendo un impatto marcato sulla gestione degli investimenti, in particolare sull’analisi quantitativa. Entro il 2020, i dati creati e archiviati ogni anno raggiungeranno i 44 zettabytes, una quantità impressionante, equivalente a 6,5 miliardi di anni di video in alta definizione. Questa crescita esponenziale di dati sta alimentando le nostre decisioni di investimento e la nostra agenda di ricerca. Stiamo cercando di spingere i nostri confini più in là andando oltre le convenzionali fonti di dati e sfruttando fonti alternative in grado di fornirci un vantaggio informativo. Oggi siamo in grado di processare più dati e con maggiore velocità, nello sforzo di avere spunti non così ovvi per gli altri investitori. Considerata la nuova disponibilità dei dati e lo sviluppo di tecniche di machine learning, siamo solo all’inizio di questa rivoluzione che riteniamo sta trasformando ogni settore a livello globale».
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