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In Europa Big Oil impara a convivere col barile a 50 dollari

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società petrolifere

In Europa Big Oil impara a convivere col barile a 50 dollari

Dopo tre anni di crisi Big Oil sembra aver imparato a convivere col petrolio a 50 dollari. Le compagnie europee che hanno inaugurato la stagione delle trimestrali hanno tutte sorpreso gli analisti con risultati oltre le aspettative, debito sotto controllo (se non addirittura in calo ) e flussi di cassa copiosi come ai tempi d’oro del barile a 100 dollari.

Quell’epoca potrebbe non tornare mai più secondo Ben van Beurden, ceo di Royal Dutch Shell, che ha abbandonato l’ormai trito slogan del «lower for longer» per sostituirlo con «lower forever», prezzi più bassi per sempre.

Il manager ha ribadito di essere convinto che la domanda di petrolio arriverà a un picco agli inizi degli anni 2030, forse anche nel decennio precedente se i biocarburanti daranno un contributo importante nei trasporti. E ha annunciato, davanti alle telecamere di Bloomberg Tv, che lui stesso da settembre guiderà un’auto elettrica. Ma il pessimismo sulle sorti del petrolio è tutt’altro che una resa per Shell, che «si sta mettendo in forma» – assicura van Beurden – per prosperare anche col barile a 40 dollari.

Il bilancio trimestrale è stato esibito come una dimostrazione di forza: tra marzo e giugno il Brent quotava circa l’8% in più rispetto allo stesso periodo del 2016, ma il prezzo era comunque intorno a 50 dollari. Nonostante questo la compagnia anglo-olandese ha più che triplicato l’utile netto adjusted a 3,6 miliardi di dollari e ha generare un cash flow operativo di 11,3 miliardi, il massimo da quando nel 2014 è iniziato il crollo del petrolio.

Negli ultimi 12 mesi, ha evidenziato van Beurden, ci sono stati flussi di cassa per 38 miliardi: una cifra sufficiente a finanziare gli investimenti e la parte cash dei dividendi col greggio a 50 $, nonché a ridurre l’indebitamento netto a 66,4 miliardi di dollari a fine giugno, dai 75 miliardi di un anno prima. La leva è ora tornata al 25,3%, da un picco di 29,2% del terzo trimestre 2016, il minimo da fine 2015: un successo particolarmente importante per Shell, che era stata molto criticata per la costosa acquisizione a debito di Bg Group, con cui peraltro ha sbilanciato il portafoglio produttivo a favore del gas.

Negli ultimi 18 mesi il gruppo ha effettuato dismissioni per 25 miliardi di dollari, oltre a ridurre i costi: un cammino che non intende interrompere. «Lo scenario di prezzi e gli sviluppi nel settore dell’energia indicano che dobbiamo restare molto disciplinati», ha dichiarato van Beurden.

Più aggressivo l’approccio della francese Total, che non è ancora sazia dopo aver avviato nei mesi scorsi investimenti importanti (come Vaca Muerta, promettente area di shale in Argentina) e firmato l’accordo con l’Iran per lo sviluppo del giacimento South Pars. Con utili trimestrali netti a 2,47 miliardi di dollari (+14%) e flussi di cassa in aumento di un terzo a 5,3 miliardi, il ceo Patrick Pouyanné assicura che il bilancio è abbastanza robusto da consentirgli di «trarre vantaggio dai prezzi bassi per lanciare progetti redditizi e acquistare risorse a condizioni attraenti».

Anche i risultati di Statoil e Repsol sono stati migliori delle attese. La compagnia norvegese ha riportato i profitti ai livelli di tre anni fa, quando il petrolio valeva 100 dollari e più (1,29 miliardi di dollari l’utile netto adjusted) e ha finalmente recuperato flussi di cassa positivi (4 miliardi di dollari nel primo semestre), mentre quella spagnola ha aumentato l’utile netto del 44% a 496 milioni di euro.

Le previsioni degli analisti sono positive anche per le altre major europee, Bp e Eni, che pubblicheranno i risultati nei prossimi giorni e per le big americane ExxonMobil e Chevron, attese per oggi.

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