Lo shale oil americano è tornato a registrare tassi di crescita «esplosivi», che potrebbero vanificare gli sforzi dell’Opec nonostante il collasso dell’industria petrolifera in Venezuela sia probabilmente destinato a continuare.
L’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) si unisce al coro di quanti prevedono un vero e proprio boom di produzione negli Stati Uniti nel 2018, tale da rendere verosimile il sorpasso di Arabia Saudita e Russia.
Washington è avviata ad estrarre 1,1 milioni di barili al giorno in più quest’anno, arrivando a 10,4 mbg, secondo l’organismo dell’Ocse (la precedente stima indicava un incremento di 870mila bg).
Il paragone con Riad e Mosca, che era già stato suggerito da altri osservatori, dovrebbe essere preso con cautela. Sauditi e russi stanno infatti tagliando volontariamente l’output. Inoltre nel conteggio dei barili «made in Usa» c’è una quota molto rilevante di condensati, estremamente leggeri e meno versatili del greggio vero e proprio: erano circa il 20% in ottobre, ossia 1,9 milioni di barili al giorno su un totale di 9,6 mbg (dati Eia), se si considerano condensati i liquidi con un gravità superiore a 45° Api.
La super-produzione Usa, unita ad aumenti consistenti anche in Brasile e Canada, porterà in ogni caso ad un incremento dell’offerta non Opec di ben 1,7 mbg, calcola l’Aie: un eccesso di esuberanza che ricorda il periodo della «grande sbornia», quello tra il 2013 e il 2015, quando al traino degli Usa l’offerta petrolifera cresceva al ritmo di 1,9 mbg l’anno.
L’effetto sul prezzo del barile stavolta potrebbe non essere altrettanto disastroso, anche se l’Agenzia parigina si aspetta un anno all’insegna della volatilità.
La domanda continua infatti a correre, anche se dovrebbe rallentare (la previsione è che aumenti di 1,3 mbg, dopo il +1,7 mbg del 2017). E le scorte petrolifere si sono già ridotte parecchio: nell’Ocse sono scese per tre trimestri di fila, un evento raro, riducendosi in media di 600mila bg, il massimo almeno dal 1984, quando l’Aie ha iniziato a monitorarle.
Gli ultimi tre mesi del 2017, in particolare, sono stati caratterizzati da una scarsità «eccezionale», complici i problemi produttivi nel Mare del Nord e l’aggravarsi della crisi in Venezuela.
La situazione nel Paese sudamericano è una delle maggiori incognite per quest’anno. Il mese scorso la sua produzione petrolifera è crollata a 1,16 mbg, il minimo da almeno trent’anni, e per l’Aie «è ragionevole presumere che il declino continuerà, anche se non è dato sapere a quale ritmo».
«Considerato l’enorme indebitamento del Venezuela e il deterioramento dello sue infrastrutture petrolifere è possibile che il declino sia persino più accentuato rispetto al calo di 270mila bg del 2017», osserva l’Agenzia. «Anche le sanzioni finanziarie Usa stanno rendendo più difficile operare».
L’Opec finora non ha approfittato della crisi di Caracas: nessuno tra i Paesi dell’Organizzazione e i loro alleati ha accelerato le estrazioni per compensare il crollo produttivo del Venezuela. Se continueranno così, domanda e offerta nel 2018 potrebbero effettivamente tornare in equilibrio, afferma l’Aie.
La situazione ovviamente potrebbe cambiare. Il comitato di monitoraggio sui tagli produttivi si riunirà questo fine settimana in Oman e i russi hanno anticipato che probabilmente verrà affrontato il tema dell’exit strategy.
La coalizione ha comunque ottenuto un successo notevole, almeno dal punto di vista finanziario: nonostante i minori volumi di greggio, i Paesi Opec hanno guadagnato 362 milioni di dollari in più al giorno nel 2017, calcola l’Agenzia internazionale per l’energia. L’Arabia Saudita ha incassato un extra di 98 milioni al giorno, la Russia (alleata esterna all’Opec) di 117 milioni. Il “premio” minore è andato al Venezuela: solo 9 milioni di dollari in più al giorno.
Mosca, grazie alla debolezza del rublo, sta incassando prezzi record per il petrolio in valuta locale: un barile vale 3.930 rubli, contro i 2.300 rubli di gennaio 2016. Non si era mai spinto così in alto, nemmeno al picco del rally nel 2008.
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