Lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica è appena esploso e le inchieste parlamentari e giudiziarie non sono ancora cominciate né in Europa né negli Usa. Ma un'atmosfera da «tolleranza zero» già aleggia pesantemente sul più grande social network del mondo e sull'intera scuderia dei colossi del web. La vendita illegale di profili degli utenti per scopi politici ha infatti tutto il potenziale distruttivo di un meteorite in caduta libera sui colossi dell'era digitale: se le accuse di abuso e negligenza nella gestione dei Big Data saranno infatti provate, il rischio non è certamente quello delle multe, ma di un'estinzione prematura della prima grande generazione delle conglomerate del web.
Già da tempo si discute della necessità di limitare il potere economico e la pervasività incontrollata dei colossi della digital economy come Google, Amazon, Facebook, Twitter o Apple: Google raccoglie il 77% dei ricavi della pubblicità da ricerche online, tagliando fuori dal mercato i search engine concorrenti; Amazon ha il 70% del mercato mondiale degli e-book e il 30% del fatturato totale del commercio elettronico americano; ancora Facebook si aggiudica addirittura il 75% di tutto il traffico dei social media, sia da solo che attraverso le altre società di cui ha rilevato il controllo. Ma qui, ora, non si tratta più di arginare le polemiche sulle fake news o di tutelare la concorrenza sul mercato della pubblicità digitale, su quello dei pagamenti cashless o sulla consegna dei libri e dei pacchi a domicilio.
Con il nuovo scandalo sulla compravendita di informazioni a fini politici, c'è ora in gioco una posta ben più alta e di portata generale, cioè il futuro dei modelli di business delle colonne portanti dell'alta tecnologia. C'è chi chiede lo “spezzatino” dei grandi gruppi per diminuirne l'influenza e chi chiede leggi speciali per la tutela della privacy e la difesa dei consumatori online; c'è chi vorrebbe la creazione di un'agenzia mondiale per la vigilanza sui social network
e chi, addirittura, l'introduzione di norme che consentano di condannare le società del web per i reati commessi dai loro utenti. Negli Stati Uniti, per esempio, sarà votata proprio questa settimana una legge in base alla quale un social network potrà essere condannato per responsabilità oggettiva per i reati commessi sul web dai loro utenti: la proposta di legge ha nel mirino il cosiddetto «sex trafficking», ma a Washington sono già in molti a volerne estendere il raggio d'azione a tutti i possibili reati commessi nel perimetro dei social media. In Europa, l'attenzione è invece concentrata solo sull'aspetto della tutela della privacy, ma l'onda lunga di quanto sta accadendo negli Usa potrebbe convincere Bruxelles a varare misure penali più incisive e allargate.
Comunque sia, nessuno può ancora dire tempi, modalità ed effetti della reazione regolatoria e giudiziaria a cui vanno incontro Facebook e concorrenti. Ma una cosa è già certa: lo sdegno e le polemiche scatenate dal nuovo caso sono talmente forti, da aver già convinto il mercato finanziario che i grandi sauri del web non riusciranno a sfuggire all'impatto del meteorite regolatorio che si muove contro di loro: in pochi giorni, oltre 100 miliardi di dollari di capitalizzazione di Borsa dei colossi internet sono già andati in fumo. E per spegnere l'incendio, questa volta, non basteranno le solite scuse.
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