Ci eravamo illusi di aver spezzato il legame tra sviluppo economico e aumento dei gas serra. Invece – dopo tre anni di lieve declino – le emissioni di CO2 sono tornate a crescere dell’1,4% nel 2017 raggiungendo il record storico di Gigatonnellate (Gt), ossia 32,5 miliardi di tonnellate.
Il bilancio, presentato dall’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), è decisamente pesante, a maggior ragione perché tiene conto solo delle emissioni legate all’energia e non di quelle prodotte da agricoltura e allevamento del bestiame.
Le cause dell’inversione di tendenza fanno riflettere. L’aumento della CO2 – che l’Aie paragona a quello provocato dall’entrata in circolazione di 170 milioni di automobili – è solo in parte frutto dell’accelerazione dell’economia globale.
La domanda di energia, al traino soprattutto di Cina e India, è in effetti cresciuta del 2,1%, un ritmo più che doppio rispetto al 2016. Ma il vero problema è che a soddisfare i consumi extra sono stati per il 72% combustibili fossili: la domanda di carbone, in calo per due anni, è tornata ad aumentare sia pure solo dell’1%, quella di petrolio – grazie anche ai prezzi più moderati – ha più che raddoppiato il ritmo di crescita rispetto al decennio precedente, salendo dell’1,6%.
Lo sviluppo delle rinnovabili è ancora più veloce: il loro impiego per la generazione elettrica è aumentato del 6,3%, ma la loro penetrazione è ancora troppo bassa per fare davvero la differenza.
Preoccupa anche il fatto che nel 2017 la spinta verso l’efficienza abbia subito una battuta d’arresto: l’intensità energetica – in parole povere l’energia necessaria per aumentare il Pil – è migliorata solo dell’1,7%, contro il 2,3% dei tre anni precedenti.
Il messaggio purtroppo è chiaro. «Gli attuali sforzi per combattere il cambiamento climatico sono insufficienti – sintetizza Fatih Birol, direttore dell’Aie – Siamo lontani dall’essere allineati con gli obiettivi stabiliti a Parigi».
Gli accordi sottoscritti nel 2015 nella capitale francese impegnano 195 Paesi a contenere entro 2° C l’aumento della temperatura globale rispetto all’epoca pre-industriale. Riuscire a rispettarli, evitando conseguenze disastrose per l’ambiente, diventa una sfida sempre più difficile man mano che il tempo passa.
«Le emissioni devono smettere presto di crescere e diminuire in modo netto entro il 2020 – afferma l’Aie – Dopo l’aumento del 2017 il declino a questo punto dovrà essere ancora più grande».
Il cambiamento climatico putroppo è già evidente e forse irreversibile. Il rapporto annuale dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm), presentato ieri, afferma che gli ultimi tre anni sono stati i più caldi nella storia e che il 2018 sta proseguendo questa tendenza.
Secondo l’organismo dell’Onu, la concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera ha superato 400 parti per milione, ben oltre le variazioni naturali registrate negli ultimi 800mila anni, e resterà a questi livelli «per generazioni a venire, condannando il nostro pianeta a un futuro con temperature più alte e un maggior numero di eventi climatici estremi».
Anche i danni provocati da disastri meteorologici l’anno scorso hanno raggiunto un importo da record: 320 miliardi di dollari, stima Munich Re.
Non tutti i Paesi hanno comunque fatto passi indietro nella lotta alla CO2. Anzi, a sorpresa proprio gli Stati Uniti di Donald Trump emergono come primi della classe: le emissioni hanno continuato a scendere, dello 0,5%, il miglior risultato al mondo secondo l’Aie, raggiunto non solo grazie allo shale gas a buon mercato che prende il posto del carbone, ma con un forte sviluppo delle rinnovabili.
Ci sono progressi anche in Cina e in India, dove la crescita delle emissioni, inferiore al 2%. è rallentata rispetto al passato. In compenso nell’Unione europea, di solito virtuosa, c’è stata un’inversione di tendenza: la CO2 è aumentata dell’1,5%.
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