L’economia marcia bene in tutto il mondo, ma le Borse annaspano. Senza un motivo determinante: oggi è per i dazi Usa-Cina, ieri era per lo scandalo Facebook, l’altro ieri per la paura del ritorno dell’inflazione (che al contrario è indice di buona salute dell’economia). Nulla lascia presagire che una recessione sia alle porte, ma le Borse soffrono. È singolare, eppure è quello che sta accadendo, per una fragilità intrinseca dei mercati legata ai postumi della politica monetaria non convenzionale statunitense e ai quantitative easing ancora in piedi in Europa e Giappone. Come ha dimostrato la correzione di inizio febbraio, con il crollo rovinoso di colossali trade costruiti vendendo volatilità, le Borse sono ancora molto, troppo fragili.
Non è infatti facile disintossicarsi da anni di piacevole “droga”. I soldi facili garantiti dalle banche centrali hanno fatto proliferare strategie finanziarie a leva, spesso su asset poco liquidi, che rischiano di amplificare uno shock iniziale in quelli che gli esperti definiscono i “feedback loop”, i quali a loro volta vengono ulteriormente esacerbati dalle compravendite forsennate degli algoritmi che ormai dominano le Borse. Ma se una correzione come quella avviata a inizio febbraio crea così tanti problemi in una fase di espansione economica, cosa accadrà quando finiremo in recessione?
Il paradosso è che Borse in difficoltà per “motivi loro” rischiano di contagiare anche il corpo sano dell’economia reale, che al contrario gode di buona salute. In che modo? Attraverso tre canali di contagio su cui si sofferma in una recente analisi Alberto Gallo, partner di Algebris (ed ex economista di Rbs, Goldman Sachs e Merrill Lynch).
Il primo veicolo di trasmissione del virus è quello dei consumi. Negli Stati Uniti, il 25% dei consumi complessivi proviene dal 10% delle famiglie più agiate, il cui patrimonio tra il 2010 e il 2016 è cresciuto del 24% grazie al periodo di grazia delle Borse. Il tutto mentre un’enorme fascia della popolazione (il 40%), nello stesso periodo, ha visto calare le proprie disponibilità economiche. Cosa significa tutto questo? Due cose: da una parte la distribuzione della ricchezza è diventata meno equa, polarizzando la condizione finanziaria di ricchi e poveri, e dall’altra la fascia di popolazione più abbiente (quella che consuma, e quindi fa marciare l’economia) è sempre più legata agli umori delle Borse. “Main Street”, insomma, dipende più che in passato dai capricci di Wall Street.
Il secondo veicolo di trasmissione del virus è quello delle “imprese zombie”, che sono sopravvissute agli anni post crisi grazie ai tassi d’interesse schiacciati sul pavimento (o addirittura negativi) garantiti dalle banche centrali. Secondo stime di Ubs, il rischio default di queste aziende diventerà tangibile quando i titoli di Stato quinquennali Usa si avvicineranno al 3% di rendimento. Probabilmente non manca molto.
Il terzo veicolo di contagio è quello degli investimenti. Quando la situazione finanziaria si deteriora, gli investimenti medi delle imprese scendono infatti di oltre il 10%, in particolare per le aziende che dipendono da crediti esterni, come ha confermato uno studio della Federal Reserve di Saint Louis condotto sul periodo 1990-2015. Minori investimenti si traducono in un rallentamento della crescita. Morale: il virus che ancora affligge l’organismo fragile dei mercati, può rapidamente contagiare anche il corpo sano dell’economia reale. Con effetti altamente indesiderati.
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