Quasi il 30% in meno di due settimane, un rincaro mai visto per l’alluminio, uno dei materiali più diffusi nella nostra vita quotidiana, utilizzato nelle automobili come nelle lattine di birra.
È questo l’effetto più vistoso delle ultime sanzioni americane contro la Russia, che hanno colpito con estrema severità l’oligarca Oleg Deripaska e la sua Rusal, il maggior fornitore del metallo fuori dalla Cina. Ma le misure adottate il 6 aprile da Washington hanno provocato una lunga catena di reazioni, con ripercussioni probabilmente molto più vaste di quanto l’amministrazione di Donald Trump avesse previsto.
Gli Stati Uniti non si sono limitati a punire Mosca, ma hanno gettato nel caos l’intera filiera dell’alluminio, dalla produzione alla distribuzione finale, provocando pesanti conseguenze in tutto il mondo. Persino i produttori americani – che dopo i dazi e la messa fuori gioco di Rusal dovrebbero cantare vittoria – non nascondono di essere in allarme.Alcoa ha denunciato la «notevole incertezza nella supply chain», che complica gli scenari sul mercato. A livello globale (dunque Cina compresa) il gruppo americano si aspetta ora un deficit di alluminio tra 600mila e un milione di tonnellate nel 2018, in aumento rispetto alle 300-700mila tonnellate che aveva previsto tre mesi fa.
Quanto all’allumina, materiale intermedio ricavato dalla bauxite, Alcoa teme che possano mancare all’appello da 300mila a 1,1 milioni di tonnellate. L’offerta scarseggia non solo a causa delle difficoltà di Rusal, ma anche per il taglio della produzione nella maxi-raffineria brasiliana Alunorte, legato a un caso di inquinamento ambientale, e il prezzo è già salito di oltre l’80% dall’annuncio delle sanzioni: le rilevazioni del Metal Bulletin indicano 710 dollari per tonnellata sul mercato spot australiano, un record storico, ma si è diffusa notizia di un carico passato di mano a 800 $/tonnellata in Brasile.
Il nervosismo è tale da generare reazioni di panico anche in settori adiacenti all’alluminio: al London Metal Exchange negli ultimi due giorni le quotazioni del nickel si sono infiammate sulla semplice ipotesi che Norilsk, un altro colosso russo, sia vicino a cadere nella rete delle sanzioni Usa. Il metallo, impiegato nell’acciaio inox e nelle batterie per l’auto elettrica, ieri ha fatto un nuovo balzo del 9% al London Metal Exchange, dopo i rialzi di quasi il 12% di mercoledì, fino a raggiungere 16.690 $/tonnellata, il massimo da tre anni.
Nelle stesse ore l’alluminio aggiornava per l’ennesima volta il record da sette anni a 2.718 $/ tonnellata, accorciando ancora la distanza rispetto al traguardo dei 3mila dollari previsto da Goldman Sachs, che ormai sembra a portata di mano viste le difficoltà negli approvvigionamenti. Il metallo ha comunque ripiegato sul finale chiudendo a 2.485 $ (-2,1%) e trascinando in negativo anche il nickel (-1,3% a 15.075 $).
Procurarsi alluminio, anche a caro prezzo, è diventato più complicato. Le forniture di Rusal, che per oltre il 40% raggiungevano clienti europei, ormai “scottano”: le banche, anche fuori dagli Usa, si rifiutano di gestire qualunque transazione col gruppo, le società logistiche sono restie a trasportare il metallo russo e persino i colossi del trading – come Glencore, che commercializzava parte dell’alluminio di Rusal – si stanno tirando indietro.
Da mercoledì il metallo russo non può nemmeno più essere consegnato nei magazzini Lme e secondo fonti Reuters il gruppo di Deripaska lo sta accumulando in grandi quantità presso le fabbriche siberiane.
Prima o poi il mercato troverà una soluzione: si dice che Rusal si stia già muovendo, per cercare triangolazioni con la Cina. Pechino stessa – per ironia della sorte, visti di dazi antidumping contro il suo alluminio – potrebbe colmare le probabili carenze di metallo nel mondo occidentale.
Le tensioni sui prezzi rischiano tuttavia di proseguire ancora per qualche tempo, con possibili ricadute sull’inflazione. A maggior ragione perché il rally si somma a quello del petrolio, salito – per ragioni che nulla hanno a che vedere con dazi e sanzioni – ai massimi dal 2014: il Brent ormai sfiora 75 dollari, il Wti punta verso 70 dollari.
Le tensioni geopolitiche sono alle stelle e l’eccesso di offerta che per anni aveva fatto da zavorra ai prezzi è sparito, ma Opec e Russia non sembrano intenzionate a ritirare né a ridurre i tagli produttivi.
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